carso point
dal 15 settembre 2009, ogni martedì fino a Natale, dalle 18 alle 19.30
Lo sviluppo del territorio e la promozione delle sue produzioni agroalimentari. La diffusione di valori condivisi quali il solido legame con le comunità locali guardando alla crescita responsabile e sostenibile del territorio di appartenenza: questi gli elementi che stanno alla base dell’accordo di collaborazione che ZKB - BCC del Carso ha siglato con l’Expo Mittelschool di Trieste.
http://www.expomittelschool.it/scheda_serate.asp?RecordID=386
mercoledì 28 ottobre 2009
eventi&co.
AOSTA , ART & CIOCC
IL TOUR DEI CIOCCOLATIERI:
I cioccolatieri provengono da tutta Italia con una produzione legata alla tradizione della propria regione d'origine: liquore al cioccolato servito in cialde croccanti, cuneesi al rhum, cioccolato di Modica, cappelletti al cioccolato bianco con ripieno al cacao, maxi-cremino alla nocciola e al gianduia, torrone con cioccolato, cioccolatini al peperoncino e olio extravergine, castagnaccio, strudel...
http://www.regione.vda.it/turismo/per_documentarsi/pagina_ricerche_i.asp?tipo=scheda&pk=28412&nomesch=sch_eventi&ts=evento
IL TOUR DEI CIOCCOLATIERI:
I cioccolatieri provengono da tutta Italia con una produzione legata alla tradizione della propria regione d'origine: liquore al cioccolato servito in cialde croccanti, cuneesi al rhum, cioccolato di Modica, cappelletti al cioccolato bianco con ripieno al cacao, maxi-cremino alla nocciola e al gianduia, torrone con cioccolato, cioccolatini al peperoncino e olio extravergine, castagnaccio, strudel...
http://www.regione.vda.it/turismo/per_documentarsi/pagina_ricerche_i.asp?tipo=scheda&pk=28412&nomesch=sch_eventi&ts=evento
eventi&co.
Sapori Colti
Dal 21 ottobre al Vittoriano Passaggi di cultura tra osterie, ristoranti e trattorie di Roma 2009
http://www.vignaclarablog.it/200910207727/sapori-colti-vittoriano-passaggi-di-cultura-osterie-ristoranti-trattorie-roma/
Dal 21 ottobre al Vittoriano Passaggi di cultura tra osterie, ristoranti e trattorie di Roma 2009
http://www.vignaclarablog.it/200910207727/sapori-colti-vittoriano-passaggi-di-cultura-osterie-ristoranti-trattorie-roma/
martedì 27 ottobre 2009
oliva&co.
Cucco
Pianta rustica e di elevata vigoria. E’ segnalata una bassa capacità rizogena.L’entrata in produzione è tardiva. La fioritura è precoce e scarsa è la produzione di polline. Autocompatibile, presenta elevata percentuale di fiori con ovario abortito. Sono stati segnalati fenomeni di intersterilità con le varietà "Dritta", "Intosso", "Castiglionese" e "Jannaro".La produttività è elevata e alternante. L’epoca di maturazione è precoce. La cascola è accentuata per la ridotta resistenza al distacco.I frutti, destinati alla produzione di olive verdi al naturale o nere alla greca, hanno un rapporto polpa/nocciolo equivalente a 4, ed il distacco della polpa è agevole. Il contenuto in olio è medio.
Tipico frutto dei vecchi oliveti delle colline a ridosso dell'adriatico abruzzese, da Montesialvano a S.Vito Lanciano. Di dimensioni medie, il, frutto nero si presta anche per il consumo da tavola, ottima per le guarnizioni con carni rosse, selvaggina da cortile.
Pianta rustica e di elevata vigoria. E’ segnalata una bassa capacità rizogena.L’entrata in produzione è tardiva. La fioritura è precoce e scarsa è la produzione di polline. Autocompatibile, presenta elevata percentuale di fiori con ovario abortito. Sono stati segnalati fenomeni di intersterilità con le varietà "Dritta", "Intosso", "Castiglionese" e "Jannaro".La produttività è elevata e alternante. L’epoca di maturazione è precoce. La cascola è accentuata per la ridotta resistenza al distacco.I frutti, destinati alla produzione di olive verdi al naturale o nere alla greca, hanno un rapporto polpa/nocciolo equivalente a 4, ed il distacco della polpa è agevole. Il contenuto in olio è medio.
Tipico frutto dei vecchi oliveti delle colline a ridosso dell'adriatico abruzzese, da Montesialvano a S.Vito Lanciano. Di dimensioni medie, il, frutto nero si presta anche per il consumo da tavola, ottima per le guarnizioni con carni rosse, selvaggina da cortile.
eventi&co.
Il gusto del trekking:
dolcetti e scherzetti camminando per la città
Il 31 ottobre in occassione della festività di halloween in numerose città italiane ci sarà la vI giornata nazionale del trekking urbano.UN occassione per scoprire le bellezze cittadine legate anche alle proprie identità enogastronomiche,città che si propongono a residenti e visitatori come luoghi salubri,dove coltivare il benessere della mente e del fisico anche attraverso il ritorno alla velocità del passo umano.
Città da capire percorrendole a piedi al ritmo degli uomini che le hanno costruite molti secoli fa.Città che vogliono farsi godere con lentezza e passione perché amano l'uomo e dagli uomini sono amate.Città dove il tempo diventa materia,dove la vivacità è vissuta nel quotidiano dei piccoli gesti.
http://www.trekkingurbano.info/
dolcetti e scherzetti camminando per la città
Il 31 ottobre in occassione della festività di halloween in numerose città italiane ci sarà la vI giornata nazionale del trekking urbano.UN occassione per scoprire le bellezze cittadine legate anche alle proprie identità enogastronomiche,città che si propongono a residenti e visitatori come luoghi salubri,dove coltivare il benessere della mente e del fisico anche attraverso il ritorno alla velocità del passo umano.
Città da capire percorrendole a piedi al ritmo degli uomini che le hanno costruite molti secoli fa.Città che vogliono farsi godere con lentezza e passione perché amano l'uomo e dagli uomini sono amate.Città dove il tempo diventa materia,dove la vivacità è vissuta nel quotidiano dei piccoli gesti.
http://www.trekkingurbano.info/
lunedì 26 ottobre 2009
vini&co.
il dolcetto
Qualcuno ritiene che il Dolcetto abbia avuto origine sulle colline del Monferrato. Proprio qui troviamo la prima citazione in una commedia astigiana dove una fantesca, tra le altre cose, chiede in cambio delle sue prestazioni un "dossèt" di Mongardino. Altri sono dell'opinione che il suo terreno di nascita sia stato la Liguria e che si sia fatto strada in Piemonte durante i numerosi scambi commerciali interregionali che hanno avuto luogo nel Medioevo.
Al di là delle sue origini, la zona di produzione di questa varietà è tuttora limitata al Piemonte e alle regioni confinanti della Liguria e della Valle d'Aosta. Il nome "Dolcetto", può portare confusione: infatti il vino non è dolce. Dolci sono invece gli acini che un tempo servivano addirittura per la cura dell'uva. Il Dolcetto coltivato in montagna e in alta collina tende a produrre vini eleganti e delicatamente profumati, mentre il Dolcetto della pianura tende ad essere più robusto e ad avere una gradazione leggermente più alta. In genere i Dolcetto sono vini freschi, fruttati e fatti per essere bevuti tra i due e i quattro anni dalla vendemmia. Alcuni produttori, tuttavia, scelgono di fare vini più concentrati e adatti all'invecchiamento.
Nel colore c'è una prevalenza di fucsia su un profondo rubino. Il Dolcetto si distingue per il corpo morbido e i suoi eleganti profumi, che possono includere fragranze di bacche mature, more e, a seconda delle zone, anche richiami di fiori e di cioccolato.Abbinamento con il ciboSi abbina con paste e risotto con sughi di carne, fegatini e funghi ma anche con carni e verdure in umido e creme di formaggi. Nelle versioni più complesse, tipo quelle dell'Ovadese, si abbina con pollame nobile e con la selvaggina di pelo in salmì.
Qualcuno ritiene che il Dolcetto abbia avuto origine sulle colline del Monferrato. Proprio qui troviamo la prima citazione in una commedia astigiana dove una fantesca, tra le altre cose, chiede in cambio delle sue prestazioni un "dossèt" di Mongardino. Altri sono dell'opinione che il suo terreno di nascita sia stato la Liguria e che si sia fatto strada in Piemonte durante i numerosi scambi commerciali interregionali che hanno avuto luogo nel Medioevo.
Al di là delle sue origini, la zona di produzione di questa varietà è tuttora limitata al Piemonte e alle regioni confinanti della Liguria e della Valle d'Aosta. Il nome "Dolcetto", può portare confusione: infatti il vino non è dolce. Dolci sono invece gli acini che un tempo servivano addirittura per la cura dell'uva. Il Dolcetto coltivato in montagna e in alta collina tende a produrre vini eleganti e delicatamente profumati, mentre il Dolcetto della pianura tende ad essere più robusto e ad avere una gradazione leggermente più alta. In genere i Dolcetto sono vini freschi, fruttati e fatti per essere bevuti tra i due e i quattro anni dalla vendemmia. Alcuni produttori, tuttavia, scelgono di fare vini più concentrati e adatti all'invecchiamento.
Nel colore c'è una prevalenza di fucsia su un profondo rubino. Il Dolcetto si distingue per il corpo morbido e i suoi eleganti profumi, che possono includere fragranze di bacche mature, more e, a seconda delle zone, anche richiami di fiori e di cioccolato.Abbinamento con il ciboSi abbina con paste e risotto con sughi di carne, fegatini e funghi ma anche con carni e verdure in umido e creme di formaggi. Nelle versioni più complesse, tipo quelle dell'Ovadese, si abbina con pollame nobile e con la selvaggina di pelo in salmì.
vini&co.
brachetto
Si ritiene che il Brachetto abbia avuto origine sulle colline del Monferrato astigiano e che già i Romani ne bevessero, quando i centurioni arrivavano ad Acqui. Racconta poi la leggenda che Cleopatra con questo vino irretì Giulio Cesare prima e Marcantonio dopo, portandoli ad esaudire i suoi desideri di potere. Vero o non vero, sta di fatto che il fascino del Brachetto è rimasto nascosto fino al XIX secolo, quando la moda per i vini dolci e frizzanti raggiunse il suo apice.
La richiesta di mercato spinse i vignaioli locali a ridisegnare i loro vigneti. Le speranze andarono in fumo ancora una volta a causa della phylloxera vastatrix. Quando arrivò il momento dei reimpianti, questa varietà a scarsa produttività lasciò il terreno a uve più prolifiche. Tuttavia il gusto in fatto di vini seguì una forte evoluzione e una ventina di anni fa, con l'affermazione dei vini da dessert, il Brachetto venne reimpiantato e si diffuse soprattutto in Piemonte, con produzioni più modeste anche nell'Oltrepo Pavese e nella Liguria.Le vigne più apprezzate si trovano ora sulle colline intorno al comune di Acqui Terme. Il Brachetto di quest'area ha ricevuto la docg nel 1996 con il nome di Brachetto d'Acqui.Il vino, leggermente frizzante, ha una gradazione alcolica minima di 11,5°, mentre quello spumantizzato ha una gradazione minima di 12°. Un'area molto più ampia, che comprende le colline delle province di Alessandria, Asti e Cuneo, dà origine alla doc Piemonte Brachetto. Questo vino amabile e spesso frizzante viene fatto con un minimo dell'85% di Brachetto, ed ha una gradazione alcolica minima di 11°.Raramente il Brachetto viene vinificato in modo da risultare completamente secco, anche se ci sono alcuni produttori che lo propongono in questa versione, specialmente nel Roero. Con il suo basso livello di tannini, una buona acidità e decisi profumi, è ideale per la produzione di spumante.
Il vino si annuncia con un bel un rosso brillante sfumato di rosa. Nel naso espande aromi di fragola e rosa. Il gusto è persistente e si propone morbido e corroborante.
Si ritiene che il Brachetto abbia avuto origine sulle colline del Monferrato astigiano e che già i Romani ne bevessero, quando i centurioni arrivavano ad Acqui. Racconta poi la leggenda che Cleopatra con questo vino irretì Giulio Cesare prima e Marcantonio dopo, portandoli ad esaudire i suoi desideri di potere. Vero o non vero, sta di fatto che il fascino del Brachetto è rimasto nascosto fino al XIX secolo, quando la moda per i vini dolci e frizzanti raggiunse il suo apice.
La richiesta di mercato spinse i vignaioli locali a ridisegnare i loro vigneti. Le speranze andarono in fumo ancora una volta a causa della phylloxera vastatrix. Quando arrivò il momento dei reimpianti, questa varietà a scarsa produttività lasciò il terreno a uve più prolifiche. Tuttavia il gusto in fatto di vini seguì una forte evoluzione e una ventina di anni fa, con l'affermazione dei vini da dessert, il Brachetto venne reimpiantato e si diffuse soprattutto in Piemonte, con produzioni più modeste anche nell'Oltrepo Pavese e nella Liguria.Le vigne più apprezzate si trovano ora sulle colline intorno al comune di Acqui Terme. Il Brachetto di quest'area ha ricevuto la docg nel 1996 con il nome di Brachetto d'Acqui.Il vino, leggermente frizzante, ha una gradazione alcolica minima di 11,5°, mentre quello spumantizzato ha una gradazione minima di 12°. Un'area molto più ampia, che comprende le colline delle province di Alessandria, Asti e Cuneo, dà origine alla doc Piemonte Brachetto. Questo vino amabile e spesso frizzante viene fatto con un minimo dell'85% di Brachetto, ed ha una gradazione alcolica minima di 11°.Raramente il Brachetto viene vinificato in modo da risultare completamente secco, anche se ci sono alcuni produttori che lo propongono in questa versione, specialmente nel Roero. Con il suo basso livello di tannini, una buona acidità e decisi profumi, è ideale per la produzione di spumante.
Il vino si annuncia con un bel un rosso brillante sfumato di rosa. Nel naso espande aromi di fragola e rosa. Il gusto è persistente e si propone morbido e corroborante.
vini&co.
bosco
Questa è una delle varietà più importanti della Liguria. Essa è infatti una componente di quasi tutti i bianchi della regione.Il nome può derivare dal fatto che la sua zona di origine, le Cinque Terre, è densamente boscosa. Dalle Cinque Terre la varietà si è estesa all'area intorno a Genova.
Viene raramente vinificato da solo e viene invece mescolato ad altre varietà come l'Albarola e il Vermentino Bianco.Il Bosco si presta per essere appassito e rappresenta almeno il 40% della doc Cinque Terre e dello Sciacchetrá delle Cinque Terre. Le uve per questo ultimo vino vengono appassite, per poi produrre un vino da dessert dorato e ambrato, che ha una gradazione minima di 17°.
Nella versione secca il colore varia dall'oro chiaro al giallo paglierino. Nel naso svela note di erbe selvatiche e di fiori di camomilla. Qualche degustatore parla anche di "tracce di mare". Sul palato il vino è morbido e saporito.Nella versione passito il vino è giallo dorato con riflessi ambrati, mentre il profumo è quello della mela matura, con note di albicocca e di ananas.
Questa è una delle varietà più importanti della Liguria. Essa è infatti una componente di quasi tutti i bianchi della regione.Il nome può derivare dal fatto che la sua zona di origine, le Cinque Terre, è densamente boscosa. Dalle Cinque Terre la varietà si è estesa all'area intorno a Genova.
Viene raramente vinificato da solo e viene invece mescolato ad altre varietà come l'Albarola e il Vermentino Bianco.Il Bosco si presta per essere appassito e rappresenta almeno il 40% della doc Cinque Terre e dello Sciacchetrá delle Cinque Terre. Le uve per questo ultimo vino vengono appassite, per poi produrre un vino da dessert dorato e ambrato, che ha una gradazione minima di 17°.
Nella versione secca il colore varia dall'oro chiaro al giallo paglierino. Nel naso svela note di erbe selvatiche e di fiori di camomilla. Qualche degustatore parla anche di "tracce di mare". Sul palato il vino è morbido e saporito.Nella versione passito il vino è giallo dorato con riflessi ambrati, mentre il profumo è quello della mela matura, con note di albicocca e di ananas.
vini&co.
barbera
Il Barbera si trova in tutta Italia. Nella sua regione natale, il Piemonte, il vitigno viene normalmente vinificato in purezza, mentre in altre regioni il più delle volte è usato in assemblaggio.Si tratta di una varietà vigorosa che prospera in terreni sabbiosi e crete. Tuttavia, molti produttori ritengono che possa dare risultati estremamente eleganti su terreni ricchi di calcare posti a latitudini temperate.A lungo considerato come adatto per ogni evenienza, il Barbera fu usato come vitigno da taglio, per portare in tavola vini più beverini. La sua acidità medio-alta, la densità del colore, i tannini medio bassi e la sua estrema versatilità hanno fatto sì che i produttori in passato lo elaborassero nelle più disparate versioni: semi-spumante, novello e addirittura in bianco. La sua prima citazione la troviamo all'inizio del VI secolo nei catasti di Chieri e di Nizza, ma fu poi il Gallesio a chiamarla Vitis vinifera montisferratensis per caratterizzarla come uva tipica del Monferrato, ovvero di quel territorio che ha per capoluogo Asti, dove il vigneto Barbera occupa più di 20.000 ettari ad una altezza tra i 200 e i 500 metri. Il suo nome, secondo una recente interpretazione, deriva dall'incrocio tra la parola barba, usata per descrivere il suo complesso sistema di radici e il termine dialettale albéra, che sta ad indicare i siti boscosi dove le viti furono impiantate in sostituzione degli alti alberi.
PiemonteSi ritiene, ma non è certo, che in Monferrato l'invito rivolto dalla chiesa di Casale ad impiantare de bonis vitibus berbexinis alludesse al vitigno del Barbera; sta di fatto che il vitigno Barbera rappresenta ancora nella regione la varietà più estesa assieme al Moscato.Inoltre le uve di Barbera concorrono come componente determinante nella composizione di undici doc del Piemonte.Le doc più note sono prodotte nelle province di Asti, Alessandria e Cuneo.
vini che si ottengono dal vitigno Barbera hanno generalmente colore rubino con venature purpuree. Si presentano vinosi e freschi all'olfatto, con morbidi aromi di prugna matura che si ribaltano sul palato. Le versioni ben fatte e barricate sanno essere sontuose, dense, ricche e raffinate con caldi frutti speziati, che si dispiegano gradevolmente al naso e al palato.
Il Barbera si trova in tutta Italia. Nella sua regione natale, il Piemonte, il vitigno viene normalmente vinificato in purezza, mentre in altre regioni il più delle volte è usato in assemblaggio.Si tratta di una varietà vigorosa che prospera in terreni sabbiosi e crete. Tuttavia, molti produttori ritengono che possa dare risultati estremamente eleganti su terreni ricchi di calcare posti a latitudini temperate.A lungo considerato come adatto per ogni evenienza, il Barbera fu usato come vitigno da taglio, per portare in tavola vini più beverini. La sua acidità medio-alta, la densità del colore, i tannini medio bassi e la sua estrema versatilità hanno fatto sì che i produttori in passato lo elaborassero nelle più disparate versioni: semi-spumante, novello e addirittura in bianco. La sua prima citazione la troviamo all'inizio del VI secolo nei catasti di Chieri e di Nizza, ma fu poi il Gallesio a chiamarla Vitis vinifera montisferratensis per caratterizzarla come uva tipica del Monferrato, ovvero di quel territorio che ha per capoluogo Asti, dove il vigneto Barbera occupa più di 20.000 ettari ad una altezza tra i 200 e i 500 metri. Il suo nome, secondo una recente interpretazione, deriva dall'incrocio tra la parola barba, usata per descrivere il suo complesso sistema di radici e il termine dialettale albéra, che sta ad indicare i siti boscosi dove le viti furono impiantate in sostituzione degli alti alberi.
PiemonteSi ritiene, ma non è certo, che in Monferrato l'invito rivolto dalla chiesa di Casale ad impiantare de bonis vitibus berbexinis alludesse al vitigno del Barbera; sta di fatto che il vitigno Barbera rappresenta ancora nella regione la varietà più estesa assieme al Moscato.Inoltre le uve di Barbera concorrono come componente determinante nella composizione di undici doc del Piemonte.Le doc più note sono prodotte nelle province di Asti, Alessandria e Cuneo.
vini che si ottengono dal vitigno Barbera hanno generalmente colore rubino con venature purpuree. Si presentano vinosi e freschi all'olfatto, con morbidi aromi di prugna matura che si ribaltano sul palato. Le versioni ben fatte e barricate sanno essere sontuose, dense, ricche e raffinate con caldi frutti speziati, che si dispiegano gradevolmente al naso e al palato.
vini&co.
L'albana
Molto probabilmente furono i Romani a portare l'Albana in Romagna. Qualcuno infatti pensa che questa varietà prenda il nome dai colli Albani, posti a sud di Roma; altri ritengono che la parola derivi dal latino albus, bianco. L'uva che si ottiene da questo vitigno è una vera e propria fabbrica di zucchero, inoltre ha un'acidità piuttosto alta con elevate quantità di tannini nei semi e nelle bucce.
Il vino che si ottiene è particolarmente adatto per l'invecchiamento nel legno. Nel 1987, l'Albana di Romagna si guadagnò la prerogativa di essere il primo vino bianco italiano a ricevere la docg.La zona di produzione dell'Albana di Romagna è concentrata nelle province di Forlì, Ravenna, Bologna e nella punta estrema della valle del Po, tra gli Appennini e l'Adriatico. Qui il suolo, ricco di fossili, è una mistura di creta, calcare, marna e sabbia. Il clima è continentale, con inverni freddi ed estati calde e secche. Sotto la doc Albana di Romagna vengono prodotte quattro tipologie di vino: il secco, l'amabile, il dolce e il passito.L'Albana secco tende ad essere un bianco leggero e brioso, da bere giovane.Quello amabile è fresco, fruttato e deliziosamente dolce ed ha una gradazione minima di 12°, caratteristica che ritroviamo anche nella versione dolce.Ma è il passito ad aver ottenuto il più importante riconoscimento internazionale. Quando viene fatto con uve attentamente selezionate da vignaioli esperti, l'Albana Passito è ricco, succulento e seducente. La produzione di questo vino si può fare in due modi: si può lasciare l'uva a maturare più a lungo direttamente sulla vite oppure si possono raccogliere i grappoli e metterli ad essiccare lentamente su graticci o su stuoie, in stanze ben ventilate. La vinificazione deve essere portata avanti in cisterne di acciaio inossidabile o in botti.La minima gradazione alcolica di questo vino è di 15,5° e deve essere invecchiato per almeno sei mesi. La maggior parte dei vinificatori, tuttavia, invecchiano i loro vini da due a quattro anni. In media, vengono prodotte annualmente meno di 200.000 bottiglie di Albana Passito.Con l'Albana si produce anche uno Spumante: per elaborare questo vino dolce e vellutato (che ha una gradazione alcolica minima di 15°) i grappoli di Albana vengono messi ad appassire per breve tempo prima della pigiatura. Nei Colli Bolognesi, ovvero nella zona collinare limitrofa alla città di Bologna, l'Albana viene mescolato con il Trebbiano Romagnolo per fare un bianco secco leggero chiamato Colli Bolognesi Bianco.
Albana secco: agli occhi si presenta paglierino, con lievi riflessi dorati.Gli assaggiatori più attenti all'olfatto scoprono tenui accenni di pesca, di rosa, di mandorla e di salvia.La qualità dei vini ottenuti dall'Albana è estremamente varia. Quando sono al meglio, l'acidità è il coronamento del loro fascino complessivo, ma a volte l'acidità prevale sul palato.Albana Passito: si presenta di un bel colore giallo oro.Nel naso si scoprono aromi di pesca, albicocca, frutta candita, miele d'acacia e, dal legno, spezie e vaniglia.Queste fragranze rimbalzano sul palato e continuano a lungo prima di esaurirsi. Le versioni ben fatte vengono spesso, e giustamente, paragonate ai Sauternes di prima classe.
Molto probabilmente furono i Romani a portare l'Albana in Romagna. Qualcuno infatti pensa che questa varietà prenda il nome dai colli Albani, posti a sud di Roma; altri ritengono che la parola derivi dal latino albus, bianco. L'uva che si ottiene da questo vitigno è una vera e propria fabbrica di zucchero, inoltre ha un'acidità piuttosto alta con elevate quantità di tannini nei semi e nelle bucce.
Il vino che si ottiene è particolarmente adatto per l'invecchiamento nel legno. Nel 1987, l'Albana di Romagna si guadagnò la prerogativa di essere il primo vino bianco italiano a ricevere la docg.La zona di produzione dell'Albana di Romagna è concentrata nelle province di Forlì, Ravenna, Bologna e nella punta estrema della valle del Po, tra gli Appennini e l'Adriatico. Qui il suolo, ricco di fossili, è una mistura di creta, calcare, marna e sabbia. Il clima è continentale, con inverni freddi ed estati calde e secche. Sotto la doc Albana di Romagna vengono prodotte quattro tipologie di vino: il secco, l'amabile, il dolce e il passito.L'Albana secco tende ad essere un bianco leggero e brioso, da bere giovane.Quello amabile è fresco, fruttato e deliziosamente dolce ed ha una gradazione minima di 12°, caratteristica che ritroviamo anche nella versione dolce.Ma è il passito ad aver ottenuto il più importante riconoscimento internazionale. Quando viene fatto con uve attentamente selezionate da vignaioli esperti, l'Albana Passito è ricco, succulento e seducente. La produzione di questo vino si può fare in due modi: si può lasciare l'uva a maturare più a lungo direttamente sulla vite oppure si possono raccogliere i grappoli e metterli ad essiccare lentamente su graticci o su stuoie, in stanze ben ventilate. La vinificazione deve essere portata avanti in cisterne di acciaio inossidabile o in botti.La minima gradazione alcolica di questo vino è di 15,5° e deve essere invecchiato per almeno sei mesi. La maggior parte dei vinificatori, tuttavia, invecchiano i loro vini da due a quattro anni. In media, vengono prodotte annualmente meno di 200.000 bottiglie di Albana Passito.Con l'Albana si produce anche uno Spumante: per elaborare questo vino dolce e vellutato (che ha una gradazione alcolica minima di 15°) i grappoli di Albana vengono messi ad appassire per breve tempo prima della pigiatura. Nei Colli Bolognesi, ovvero nella zona collinare limitrofa alla città di Bologna, l'Albana viene mescolato con il Trebbiano Romagnolo per fare un bianco secco leggero chiamato Colli Bolognesi Bianco.
Albana secco: agli occhi si presenta paglierino, con lievi riflessi dorati.Gli assaggiatori più attenti all'olfatto scoprono tenui accenni di pesca, di rosa, di mandorla e di salvia.La qualità dei vini ottenuti dall'Albana è estremamente varia. Quando sono al meglio, l'acidità è il coronamento del loro fascino complessivo, ma a volte l'acidità prevale sul palato.Albana Passito: si presenta di un bel colore giallo oro.Nel naso si scoprono aromi di pesca, albicocca, frutta candita, miele d'acacia e, dal legno, spezie e vaniglia.Queste fragranze rimbalzano sul palato e continuano a lungo prima di esaurirsi. Le versioni ben fatte vengono spesso, e giustamente, paragonate ai Sauternes di prima classe.
vini&co.
Lo schioppettino
La Ribolla nera, chiamata Schioppettino nel comune di Prepotto e dintorni, Pocalza nelle zone di confine, è un vitigno sicuramente indigeno - friulano, originario con ogni probabilità della zona friulana fra il comprensorio di Prepotto e una parte confinante della vicina Slovenia.Attualmente lo Schioppettino è diffuso in quantità limitata nel comune di Prepotto e nella frazione di Albana, con rari filari in zone limitrofe. Non è dato a sapere l’origine del nome, che ha sostituito quello di Ribolla nera. Con ogni probabilità il vino, di contenuto grado alcolico ma di alta acidità fissa, imbottigliato giovane, completava la fermentazione malolattica in bottiglia.Diventava quindi leggermente frizzante, dando l’impressione, all’udito e in bocca, che l’anidride carbonica, scoppiettasse, liberandosi con rapidità in piccoli zampilli. Da qui il suono, onomatopeico: “Schioppettino”.
L’aroma inconfondibile di frutti di bosco, mora, mirtillo e marasca, si mescola armoniosamente con una nota speziata che ricorda il profumo del pepe verde. Complesso ed elegante, è un vino da abbinare a pietanze di carne e, se invecchiato, anche a selvaggina. Affinato in legno, è di buona struttura e con impronta aromatica estremamente complessa.
L’Associazione Produttori dello Schioppettino di Prepotto, costituitasi nel 2002 con lo scopo di promuovere e realizzare studi volti a garantire la qualità e le caratteristiche tipiche di questo vitigno, dopo un percorso iniziato nel 2003 e l’adozione di un disciplinare di produzione molto restrittivo, ha ottenuto, nel 2008, il proprio cru: la denominazione di sottozona “Schioppettino di Prepotto”.
La Ribolla nera, chiamata Schioppettino nel comune di Prepotto e dintorni, Pocalza nelle zone di confine, è un vitigno sicuramente indigeno - friulano, originario con ogni probabilità della zona friulana fra il comprensorio di Prepotto e una parte confinante della vicina Slovenia.Attualmente lo Schioppettino è diffuso in quantità limitata nel comune di Prepotto e nella frazione di Albana, con rari filari in zone limitrofe. Non è dato a sapere l’origine del nome, che ha sostituito quello di Ribolla nera. Con ogni probabilità il vino, di contenuto grado alcolico ma di alta acidità fissa, imbottigliato giovane, completava la fermentazione malolattica in bottiglia.Diventava quindi leggermente frizzante, dando l’impressione, all’udito e in bocca, che l’anidride carbonica, scoppiettasse, liberandosi con rapidità in piccoli zampilli. Da qui il suono, onomatopeico: “Schioppettino”.
L’aroma inconfondibile di frutti di bosco, mora, mirtillo e marasca, si mescola armoniosamente con una nota speziata che ricorda il profumo del pepe verde. Complesso ed elegante, è un vino da abbinare a pietanze di carne e, se invecchiato, anche a selvaggina. Affinato in legno, è di buona struttura e con impronta aromatica estremamente complessa.
L’Associazione Produttori dello Schioppettino di Prepotto, costituitasi nel 2002 con lo scopo di promuovere e realizzare studi volti a garantire la qualità e le caratteristiche tipiche di questo vitigno, dopo un percorso iniziato nel 2003 e l’adozione di un disciplinare di produzione molto restrittivo, ha ottenuto, nel 2008, il proprio cru: la denominazione di sottozona “Schioppettino di Prepotto”.
vini&co.
il greco
L’origine del Greco è da ricercare nel gruppo delle Aminee, viti greche di cui Virgilio scrive “Sunt et aminneae vites, fermissima vina (…)”. In particolare deriverebbe dalle Aminee gemelle, denominate così per la lunga ala laterale citata anche da Plinio e Columella.Sono diverse le citazioni riguardanti il Greco le prime delle quali risalgono ai primi del 1800; fanno riferimento al “vino Greco” Columella Onorati, Gasparrini, Semola e Carlucci. Sante Lancerio, bottigliere papale, nel 1549 segnala ben cinque tipi di Greco. Circa la descrizione dei vini prodotti con uve Greco nel 1980 Veronelli scrive: “color giallo galierino, lucido; bouquet folto, continuo, soave; sapore secco senza asperità, nutrito e tuttavia nervoso, stoffa delicata ed elegante, con la spigola in bianco ci ha fatto l’amore”.Diversi documenti contabili lo descrivono come merce preziosa già nel 1300 quando il suo commercio nel porto di Napoli era estremamente remunerativo e nel 1500 quando gli introiti erariali che comportava il suo scambio contribuivano a riempire le casse di Papa Paolo Farnese.Pietro Gravina nel X secolo nell’epigramma “Vini Greci bis” scrive: ” non la fiorente Lesbo ti manda questo vino, né alcuna felice terra del mare Egeo, ben nota per la vicinanza ma te lo danni i gioghi del Vesuvio sacri a Bacco, ben noti come località vinifere. E qualcuno è mantenuto frigido da ingrato tepore beva questo vino e lieto amante sveglierà le membra. E se qualcun mal sopporta le voglie di una vigorosissima fanciulla, tracannato questo vino non avrà alcun affanno”.Il Greco è un vitigno molto vigoroso che presenta buona affinità con i principali portainnesto. Non ha produzioni eccessive e a maturazione raggiunge buoni livelli in acidi e zuccheri. Raggiunge produzioni contenute e costanti se allevato a spalliera. Il Greco è raccomandato per tutte le province campane ma è coltivato anche in Puglia, Molise, Lazio e Toscana. È alla base del vino monovarietale delle DOC Sannio, Taburno e Sant’Agata dei Goti.
L’origine del Greco è da ricercare nel gruppo delle Aminee, viti greche di cui Virgilio scrive “Sunt et aminneae vites, fermissima vina (…)”. In particolare deriverebbe dalle Aminee gemelle, denominate così per la lunga ala laterale citata anche da Plinio e Columella.Sono diverse le citazioni riguardanti il Greco le prime delle quali risalgono ai primi del 1800; fanno riferimento al “vino Greco” Columella Onorati, Gasparrini, Semola e Carlucci. Sante Lancerio, bottigliere papale, nel 1549 segnala ben cinque tipi di Greco. Circa la descrizione dei vini prodotti con uve Greco nel 1980 Veronelli scrive: “color giallo galierino, lucido; bouquet folto, continuo, soave; sapore secco senza asperità, nutrito e tuttavia nervoso, stoffa delicata ed elegante, con la spigola in bianco ci ha fatto l’amore”.Diversi documenti contabili lo descrivono come merce preziosa già nel 1300 quando il suo commercio nel porto di Napoli era estremamente remunerativo e nel 1500 quando gli introiti erariali che comportava il suo scambio contribuivano a riempire le casse di Papa Paolo Farnese.Pietro Gravina nel X secolo nell’epigramma “Vini Greci bis” scrive: ” non la fiorente Lesbo ti manda questo vino, né alcuna felice terra del mare Egeo, ben nota per la vicinanza ma te lo danni i gioghi del Vesuvio sacri a Bacco, ben noti come località vinifere. E qualcuno è mantenuto frigido da ingrato tepore beva questo vino e lieto amante sveglierà le membra. E se qualcun mal sopporta le voglie di una vigorosissima fanciulla, tracannato questo vino non avrà alcun affanno”.Il Greco è un vitigno molto vigoroso che presenta buona affinità con i principali portainnesto. Non ha produzioni eccessive e a maturazione raggiunge buoni livelli in acidi e zuccheri. Raggiunge produzioni contenute e costanti se allevato a spalliera. Il Greco è raccomandato per tutte le province campane ma è coltivato anche in Puglia, Molise, Lazio e Toscana. È alla base del vino monovarietale delle DOC Sannio, Taburno e Sant’Agata dei Goti.
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il fiano
Il Fiano è un vitigno in forte espansione ed è attualmente coltivato soprattutto nella provincia di Avellino. Una grande querelle che ha affascinato da sempre gli ampelografi è l’origine del suo nome. Fiano deriverebbe dalla corruzione di Apianis che a sua volta deriva da apis, ape. Plinio a tal proposito scrive: “le api diedero il nome alle viti Apiane, avide specialmente di esse” e Columella sostiene: “sono preda delle api, per questo prendono tale nome. E sono celeberrime per il gradito gusto”. Murolo però nel 1984 formula dubbi a tal proposito ipotizzando che il Fiano sia stato portato in Campania dai coloni pelagici provenienti appunto dall’Apia.Nel 2001 Reppucci suggerisce che il Fiano tragga il suo nome dai Liguri Apuani che, ribellatisi a Roma, nel 180 a.C. si trasferirono nell’ager taurasius, a nord di Benevento.Diversi sono i sinonimi del Fiano: Fiore Mendillo, Fiana o Forano, Santa Sofia, Latino bianco, Minatola ma molti di loro sono inesatti e per alcuni si è giunti anche ad accertare la tipizzazione di vitigni diversi.Già nel 1876 Froio indica nell’utilizzo di Greco e di Fiano “il miglior modo per avere un vino dilicato e ricco di aroma non comune, anzi se di queste uve io tengo ben conto è per l’aroma che comunicano al vino”.Ma a rendere il senso delle doti di un vino da uve Fiano è forse Pillon negli anni ottanta che scrive:” (…) odore elegante, sottile, continuo. Sapore secco, superbo, appena prodotto ha profumo di pera che si completa ampliandosi sino al gusto di nocciola e poi, con la maturazione, ha sapore di nocciola tostata; ha straordinaria grazia ed eleganza, stoffa carezzevole, singolare personalita”. Nel 2002 Moio lo descrive così: “i principali descrittori del vino fiano sono risultati i seguenti: mela, banana, tiglio, rosa, menta, nocciola, mandorla, miele” e con l’invecchiamento “(…) citazioni di finocchietto, menta, ginestra, pera, nocciola, mandorla, acacia, miele”.Un’altra caratteristica non secondaria del Fiano è la possibilità di essere destinato all’invecchiamento, cosa che non è concessa a tutti i bianchi.Il Fiano è un vitigno molto vigoroso che, innestato su portainnesti dallo sviluppo contenuto, riesce ad adattarsi a forme di allevamento contenute. Non ha produzioni eccessive e, nonostante si raccolga tra la fine di settembre e la prima quindicina di ottobre, presenta una discreta resistenza alla Botrite grazie soprattutto allo spessore dell’acino. A maturazione raggiunge elevati livelli in acidi e zuccheri. Il Fiano è raccomandato per tutte le province campane ed è alla base del vino monovarietale della DOC Sannio.
Il Fiano è un vitigno in forte espansione ed è attualmente coltivato soprattutto nella provincia di Avellino. Una grande querelle che ha affascinato da sempre gli ampelografi è l’origine del suo nome. Fiano deriverebbe dalla corruzione di Apianis che a sua volta deriva da apis, ape. Plinio a tal proposito scrive: “le api diedero il nome alle viti Apiane, avide specialmente di esse” e Columella sostiene: “sono preda delle api, per questo prendono tale nome. E sono celeberrime per il gradito gusto”. Murolo però nel 1984 formula dubbi a tal proposito ipotizzando che il Fiano sia stato portato in Campania dai coloni pelagici provenienti appunto dall’Apia.Nel 2001 Reppucci suggerisce che il Fiano tragga il suo nome dai Liguri Apuani che, ribellatisi a Roma, nel 180 a.C. si trasferirono nell’ager taurasius, a nord di Benevento.Diversi sono i sinonimi del Fiano: Fiore Mendillo, Fiana o Forano, Santa Sofia, Latino bianco, Minatola ma molti di loro sono inesatti e per alcuni si è giunti anche ad accertare la tipizzazione di vitigni diversi.Già nel 1876 Froio indica nell’utilizzo di Greco e di Fiano “il miglior modo per avere un vino dilicato e ricco di aroma non comune, anzi se di queste uve io tengo ben conto è per l’aroma che comunicano al vino”.Ma a rendere il senso delle doti di un vino da uve Fiano è forse Pillon negli anni ottanta che scrive:” (…) odore elegante, sottile, continuo. Sapore secco, superbo, appena prodotto ha profumo di pera che si completa ampliandosi sino al gusto di nocciola e poi, con la maturazione, ha sapore di nocciola tostata; ha straordinaria grazia ed eleganza, stoffa carezzevole, singolare personalita”. Nel 2002 Moio lo descrive così: “i principali descrittori del vino fiano sono risultati i seguenti: mela, banana, tiglio, rosa, menta, nocciola, mandorla, miele” e con l’invecchiamento “(…) citazioni di finocchietto, menta, ginestra, pera, nocciola, mandorla, acacia, miele”.Un’altra caratteristica non secondaria del Fiano è la possibilità di essere destinato all’invecchiamento, cosa che non è concessa a tutti i bianchi.Il Fiano è un vitigno molto vigoroso che, innestato su portainnesti dallo sviluppo contenuto, riesce ad adattarsi a forme di allevamento contenute. Non ha produzioni eccessive e, nonostante si raccolga tra la fine di settembre e la prima quindicina di ottobre, presenta una discreta resistenza alla Botrite grazie soprattutto allo spessore dell’acino. A maturazione raggiunge elevati livelli in acidi e zuccheri. Il Fiano è raccomandato per tutte le province campane ed è alla base del vino monovarietale della DOC Sannio.
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La falanghina
La linea di demarcazione tra la viticoltura greca e quella latina è l’introduzione dell’utilizzo del palo come tutore per i ceppi di vite. Tale palo, detto falanga, secondo Murolo ha dato il nome alla varietà Falanghina datando quindi l’origine di questo vitigno con l’inizio della viticoltura in Campania.Le citazioni circa la Falanghina si sprecano. Già nel 1848, ad opera del Semmola, ne abbiamo un’accurata descrizione: “ fiorisce ai principi di giugno (…) Grappolo di mezzana grandezza, allungato, poco ramoso, raro. Bacca quasi rotonda, picciola, di un bel gialletto ed a perfetta maturità più si colora; sugosa, molto dolce. Molto e costantemente fruttifero. Fa buon vino”.La Falanghina, tranne che in qualche raro caso dovuto alla corruzione dialettale in Falenchina o Fallanghina, è stata sempre conosciuta con questo nome o, al massimo, con il sinonimo di Biancazita.La Falanghina è stata da sempre diffusissima soprattutto nel napoletano e nel casertano. Nella provincia di Benevento ha subito una rapida espansione dagli inizia degli anni ottanta. Dalle indagini di caratterizzazione è però emersa una sostanziale differenza tra la Falanghina “dei Campi Flegrei” e quella Beneventana. La Falanghina Beneventana sarebbe originaria dell’area caudina, più precisamente del comune di Bonea. Storicamente si riscontrano poche notizie circa la caratterizzazione di questo vitigno; Bordignon in “Falanghina”, monografia dedicata al vitigno, cita oltre alla “verace” anche una “Falanghina Mascolina” ma la scarsità di notizie fornite a riguardo non permettono di riconoscere in essa l’attuale Falanghina Beneventana. Carusi, nel 1879 riferisce di una Falanghina nella provincia di Benevento conosciuta anche con il sinonimo di Montecalvo.Circa la caratterizzazione del vino ottenuto da uve di Falanghina C. Orazy du Marais scrive: “Colore giallo pallidissimo, con notazioni grigio perlacee e sfumature di un verde appena accennato. (…) Attacco Floreale con notazioni importanti come quella della tuberosa, accompagnata dai profumi della frutta a buccia rossa (…). Al gusto manifesta una presenza viva, asciutta, di gradevole intensità (…) Fonde piacevolmente in bocca”.La Falanghina Beneventana è un vitigno molto vigoroso, da allevarsi con potature lunghe, caratterizzato da buone produzioni e media fertilità delle gemme. Non presenta particolari esigenze di portainnesto. L’epoca di raccolta delle uve cade tra l’ultima decina di settembre e la prima di ottobre. In relazione all’ambiente in cui è coltivato può raggiungere elevati livelli in zuccheri e livelli medio-alti di acidità titolabile.La Falanghina Beneventana è alla base dei vini monovitigno delle DOC Guardiolo, Sannio, Sant’Agata dei Goti, anche nella tipologia passito, Solopaca e Taburno ed è inoltre utilizzato per la produzione di spumanti DOC Solopaca, Guardiolo, Sannio e Taburno.
La linea di demarcazione tra la viticoltura greca e quella latina è l’introduzione dell’utilizzo del palo come tutore per i ceppi di vite. Tale palo, detto falanga, secondo Murolo ha dato il nome alla varietà Falanghina datando quindi l’origine di questo vitigno con l’inizio della viticoltura in Campania.Le citazioni circa la Falanghina si sprecano. Già nel 1848, ad opera del Semmola, ne abbiamo un’accurata descrizione: “ fiorisce ai principi di giugno (…) Grappolo di mezzana grandezza, allungato, poco ramoso, raro. Bacca quasi rotonda, picciola, di un bel gialletto ed a perfetta maturità più si colora; sugosa, molto dolce. Molto e costantemente fruttifero. Fa buon vino”.La Falanghina, tranne che in qualche raro caso dovuto alla corruzione dialettale in Falenchina o Fallanghina, è stata sempre conosciuta con questo nome o, al massimo, con il sinonimo di Biancazita.La Falanghina è stata da sempre diffusissima soprattutto nel napoletano e nel casertano. Nella provincia di Benevento ha subito una rapida espansione dagli inizia degli anni ottanta. Dalle indagini di caratterizzazione è però emersa una sostanziale differenza tra la Falanghina “dei Campi Flegrei” e quella Beneventana. La Falanghina Beneventana sarebbe originaria dell’area caudina, più precisamente del comune di Bonea. Storicamente si riscontrano poche notizie circa la caratterizzazione di questo vitigno; Bordignon in “Falanghina”, monografia dedicata al vitigno, cita oltre alla “verace” anche una “Falanghina Mascolina” ma la scarsità di notizie fornite a riguardo non permettono di riconoscere in essa l’attuale Falanghina Beneventana. Carusi, nel 1879 riferisce di una Falanghina nella provincia di Benevento conosciuta anche con il sinonimo di Montecalvo.Circa la caratterizzazione del vino ottenuto da uve di Falanghina C. Orazy du Marais scrive: “Colore giallo pallidissimo, con notazioni grigio perlacee e sfumature di un verde appena accennato. (…) Attacco Floreale con notazioni importanti come quella della tuberosa, accompagnata dai profumi della frutta a buccia rossa (…). Al gusto manifesta una presenza viva, asciutta, di gradevole intensità (…) Fonde piacevolmente in bocca”.La Falanghina Beneventana è un vitigno molto vigoroso, da allevarsi con potature lunghe, caratterizzato da buone produzioni e media fertilità delle gemme. Non presenta particolari esigenze di portainnesto. L’epoca di raccolta delle uve cade tra l’ultima decina di settembre e la prima di ottobre. In relazione all’ambiente in cui è coltivato può raggiungere elevati livelli in zuccheri e livelli medio-alti di acidità titolabile.La Falanghina Beneventana è alla base dei vini monovitigno delle DOC Guardiolo, Sannio, Sant’Agata dei Goti, anche nella tipologia passito, Solopaca e Taburno ed è inoltre utilizzato per la produzione di spumanti DOC Solopaca, Guardiolo, Sannio e Taburno.
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L'aglianico
L’Aglianico è il vitigno che incarna la vitivinicoltura campana essendo da sempre coltivato nelle aree a maggiore vocazione della regione.In Campania l’Aglianico mostra un ampio adattamento agli ambienti geo-pedologici più diversi, sia di pianura che di collina, purchè situati in una fascia climatica di somme termiche elevate.È questo il motivo principale della sua diffusione nell’Italia meridionale e della sua presenza a nord della Campania.La coltivazione secolare del vitigno ha selezionato vari biotipi di Aglianico, che caratterizzano ciascuna area di diffusione: l’Aglianico amaro delle provincie di Benevento e Caserta, l’Aglianico di Taurasi nell’avellinese, l’Aglianicone della provincia di Salerno, l’Aglianichello nella provincia di Napoli, l’Aglianico del Vulture in Basilicata.Il primo a riconoscere all’Aglianico un’origine greca è il Porta, che nel 1581 prima scrive: “Columella ci descrive anche le Helvolae che altri chiamano Variae” e, poi, in modo categorico, asserisce “dico, dunque, che le nostre viti Hellaniche sono le Helvolae degli antichi”.L’ipotesi è avvallata nel 1804 da Columella Onorati che scrive: “finalmente le uve da vino sono principalmente la glianica detta anticamente ellenica o ellanica, venuta forse dall’Eubea, oggi Negroponte, secondo i nostri Antiquari; ch’è di colore nero”, e, successivamente, confermata da Granata che si basa sull’etimologia della parola aglianico che significa “graco” o “grecizzante”. In effetti il passaggio di denominazione da ellenica-ellanica ad aglianico potrebbe risalire al periodo di dominazione spagnola sul regno di Napoli e sarebbe dovuto al fatto che gli Aragonesi pronunciavano la doppia “l” come “gli”.Chi studia a fondo la questione della provenienza di questo vitigno è Carlucci che nell’Ampelographie di Viala e Vermorel sostiene: “per quel che mi riguarda sono dell’opinione che i vitigni che producono oggi i vini di Pozzuoli sono gli stessi che davano l’antico Giurano o Falerno; che, di conseguenza, l’Aglianico attuale, identico a quello coltivato nel XVI secolo al tempo di Bacci sia uno di quelli che costituivano i vigneti di Gauro al tempo di Plinio”. Di vino di uve Aglianico hanno poi parlato: Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese che scrive: "Di tali vini Sua Santità beveva molto volentieri et dicevali bevanda delli vecchi, rispetto alla pienezza", Andrea Bacci, medico di Sisto V Peretti, che ne dice: "…vino ricercato e prestigioso delle mense dei ricchi" e Arturo Marescalchi che lo definì "il fratello maggiore del Barolo e del Barbaresco".Dal punto di vista agronomico e produttivo l’Aglianico è un vitigno piuttosto vigoroso che permette produzioni mediamente abbondanti. Può presentare, anche in rapporto alla disponibilità di micronutrienti, fenomeni di acinellatura verde. Si raccoglie solitamente tra la prima e la terza decade di ottobre e ammostato fa registrare alti valori di zucchero e elevati livelli di acidità.Come detto l’Aglianico è il vitigno maggiormente diffuso in Campania e, con il suo biotipo “amaro”, concorre alla produzione dei DOC monovitigno Solopaca, Aglianico del Taburno, Sant’Agata dei Goti, Sannio e Guardiolo oltre che al Taburno rosso e novello.
L’Aglianico è il vitigno che incarna la vitivinicoltura campana essendo da sempre coltivato nelle aree a maggiore vocazione della regione.In Campania l’Aglianico mostra un ampio adattamento agli ambienti geo-pedologici più diversi, sia di pianura che di collina, purchè situati in una fascia climatica di somme termiche elevate.È questo il motivo principale della sua diffusione nell’Italia meridionale e della sua presenza a nord della Campania.La coltivazione secolare del vitigno ha selezionato vari biotipi di Aglianico, che caratterizzano ciascuna area di diffusione: l’Aglianico amaro delle provincie di Benevento e Caserta, l’Aglianico di Taurasi nell’avellinese, l’Aglianicone della provincia di Salerno, l’Aglianichello nella provincia di Napoli, l’Aglianico del Vulture in Basilicata.Il primo a riconoscere all’Aglianico un’origine greca è il Porta, che nel 1581 prima scrive: “Columella ci descrive anche le Helvolae che altri chiamano Variae” e, poi, in modo categorico, asserisce “dico, dunque, che le nostre viti Hellaniche sono le Helvolae degli antichi”.L’ipotesi è avvallata nel 1804 da Columella Onorati che scrive: “finalmente le uve da vino sono principalmente la glianica detta anticamente ellenica o ellanica, venuta forse dall’Eubea, oggi Negroponte, secondo i nostri Antiquari; ch’è di colore nero”, e, successivamente, confermata da Granata che si basa sull’etimologia della parola aglianico che significa “graco” o “grecizzante”. In effetti il passaggio di denominazione da ellenica-ellanica ad aglianico potrebbe risalire al periodo di dominazione spagnola sul regno di Napoli e sarebbe dovuto al fatto che gli Aragonesi pronunciavano la doppia “l” come “gli”.Chi studia a fondo la questione della provenienza di questo vitigno è Carlucci che nell’Ampelographie di Viala e Vermorel sostiene: “per quel che mi riguarda sono dell’opinione che i vitigni che producono oggi i vini di Pozzuoli sono gli stessi che davano l’antico Giurano o Falerno; che, di conseguenza, l’Aglianico attuale, identico a quello coltivato nel XVI secolo al tempo di Bacci sia uno di quelli che costituivano i vigneti di Gauro al tempo di Plinio”. Di vino di uve Aglianico hanno poi parlato: Sante Lancerio, bottigliere di Papa Paolo III Farnese che scrive: "Di tali vini Sua Santità beveva molto volentieri et dicevali bevanda delli vecchi, rispetto alla pienezza", Andrea Bacci, medico di Sisto V Peretti, che ne dice: "…vino ricercato e prestigioso delle mense dei ricchi" e Arturo Marescalchi che lo definì "il fratello maggiore del Barolo e del Barbaresco".Dal punto di vista agronomico e produttivo l’Aglianico è un vitigno piuttosto vigoroso che permette produzioni mediamente abbondanti. Può presentare, anche in rapporto alla disponibilità di micronutrienti, fenomeni di acinellatura verde. Si raccoglie solitamente tra la prima e la terza decade di ottobre e ammostato fa registrare alti valori di zucchero e elevati livelli di acidità.Come detto l’Aglianico è il vitigno maggiormente diffuso in Campania e, con il suo biotipo “amaro”, concorre alla produzione dei DOC monovitigno Solopaca, Aglianico del Taburno, Sant’Agata dei Goti, Sannio e Guardiolo oltre che al Taburno rosso e novello.
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il piedirosso
Dopo l’Aglianico il Piedirosso è il vitigno autoctono a frutto rosso più diffuso in Campania. Il suo nome dialettale, Per’ e palummo, deriva da una peculiarità morfologica del rachide: il colore rosso dei pedicelli degli acini che ricorda la tinta della zampa dei colombi -. Con questo nome o con la sua italianizzazione – Piede di Palombo – è da sempre riportato nella letteratura ampelografica mentre il termine Piedirosso si deve al Carlucci che riferisce, nel 1909, “Piedirosso, diffuso ad Avellino e Benevento”. Carlucci sostiene che il Piedirosso coincida con la Palombina nera citata da Herrera e Sederini nel XVI secolo, i quali a loro volta la ritengono identica alla Colombina riportata da Plinio in Naturalis Historia.Il primo riferimento storico è di Columella Onorati che evidenzia: “il Piede Palombo, uva ancora nera, ma alquanto rada negli acini, i più piccioli dè quali rosseggiano come i piedi dè colombi”. Froio nel 1876 esalta così il Piedirosso: “a Gragnano, ove il terreno è calcareo e predomina il vitigno detto Piede di Colombo, si fa eccellente vino rosso molto profumato che invecchiando assomiglia al vino Boucholais; disgraziatamente manca chi lo conservi per farlo migliorare percicchè si vende nell’anno per consumo giornaliero. (…) nelle contrade esposte ad oriente ed a mezzogiorno i vini rossi sono più sottili, e molti di essi, invecchiando, acquistano naturalmente l’odore della radice dell?iride fiorentina. Questa particolarità tanto preziosa si osserva però solamente quando nei vigneti predomina l’uva detta Piede di Colombo. (…) credendo solamente dover insistere perché da questi vigneti vesuviani sieno tolte tante uve cattive, sia la coltura ristretta a poche varietà, tra le quali primeggi la Piede di Colombo ed anche l’Olivella”.Agronomicamente è un vitigno dal caratteristico vigore che predilige forme di allevamento espanse e dà origine a produzioni medio-basse. A maturazione, tra la prima e la seconda decade di ottobre, raggiunge un’acidità totale di livello medio e un alto tenore in zuccheri. Non ha particolari esigenze circa la scelta del portainnesto.A riprova della forte tipicizzazzione, il Piedirosso è un vitigno raccomandato solo per la Campania. I vini del Sannio beneventano nella cui composizione hanno il Piedirosso sono i monovitigno Taburno e Sannio e il Rosso, Rosato e Piedirosso della DOC Sant’Agata dei Goti.
Dopo l’Aglianico il Piedirosso è il vitigno autoctono a frutto rosso più diffuso in Campania. Il suo nome dialettale, Per’ e palummo, deriva da una peculiarità morfologica del rachide: il colore rosso dei pedicelli degli acini che ricorda la tinta della zampa dei colombi -. Con questo nome o con la sua italianizzazione – Piede di Palombo – è da sempre riportato nella letteratura ampelografica mentre il termine Piedirosso si deve al Carlucci che riferisce, nel 1909, “Piedirosso, diffuso ad Avellino e Benevento”. Carlucci sostiene che il Piedirosso coincida con la Palombina nera citata da Herrera e Sederini nel XVI secolo, i quali a loro volta la ritengono identica alla Colombina riportata da Plinio in Naturalis Historia.Il primo riferimento storico è di Columella Onorati che evidenzia: “il Piede Palombo, uva ancora nera, ma alquanto rada negli acini, i più piccioli dè quali rosseggiano come i piedi dè colombi”. Froio nel 1876 esalta così il Piedirosso: “a Gragnano, ove il terreno è calcareo e predomina il vitigno detto Piede di Colombo, si fa eccellente vino rosso molto profumato che invecchiando assomiglia al vino Boucholais; disgraziatamente manca chi lo conservi per farlo migliorare percicchè si vende nell’anno per consumo giornaliero. (…) nelle contrade esposte ad oriente ed a mezzogiorno i vini rossi sono più sottili, e molti di essi, invecchiando, acquistano naturalmente l’odore della radice dell?iride fiorentina. Questa particolarità tanto preziosa si osserva però solamente quando nei vigneti predomina l’uva detta Piede di Colombo. (…) credendo solamente dover insistere perché da questi vigneti vesuviani sieno tolte tante uve cattive, sia la coltura ristretta a poche varietà, tra le quali primeggi la Piede di Colombo ed anche l’Olivella”.Agronomicamente è un vitigno dal caratteristico vigore che predilige forme di allevamento espanse e dà origine a produzioni medio-basse. A maturazione, tra la prima e la seconda decade di ottobre, raggiunge un’acidità totale di livello medio e un alto tenore in zuccheri. Non ha particolari esigenze circa la scelta del portainnesto.A riprova della forte tipicizzazzione, il Piedirosso è un vitigno raccomandato solo per la Campania. I vini del Sannio beneventano nella cui composizione hanno il Piedirosso sono i monovitigno Taburno e Sannio e il Rosso, Rosato e Piedirosso della DOC Sant’Agata dei Goti.
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il coda di volpe
Il Coda di Volpe è un vitigno in forte espansione sebbene solo fino a qualche anno fà fosse considerato un vitigno minore. Il suo nome deriva dal latino "Cauda Vulpium", per la sua forma caratteristica che ricorda appunto la coda della volpe. La sua storia è particolarmente affascinante se si considerano oltre all’antichità che ne contraddistingue le origini anche i numerosi casi di sinonimia e omonimia segnalati da numerosi studiosi.Il primo a citare il Coda di Volpe è, in Naturalis Historia, Plinio il Vecchio che, trattando dei vitigni adatti ad essere allevati a pergola scrive: “minus tamen, caudas vulpium imitata, alopecia”. Fu il Porta nel 1584 a sostenere che con il nome di Coda di Volpe si coltiva un vitigno identificabile con le uve alopecia sebbene tale ipotesi non fosse suffragata da elementi certi.Altro caso di studio per gli ampelografi campani è stata la sinonimia tra il Coda di Volpe e il Pallagrello. A riguardo è il Froio a produrre la maggior quantità di notizie. Egli descrive prima nel 1875 e poi nel 1878 la Coda di Volpe utilizzando anche i sinonimi di Pallagrella bianca e Durante. Più tardi tratterà dei vitigni coltivati in Campania dando notizia di una Coda di Volpe diffusa a Torre del Greco e del Pallagrello presente nel casertano ritenendo quindi diverse le due varietà.Ad oggi, l’esame comparativo dei due vitigni unito agli studi di caratterizzazione ampelografica e molecolare non hanno ancora chiarito il caso. È stato comunque accertato che il Coda di Volpe non ha tra i suoi sinonimi il Coda di Pecora denominazione con la quale è conosciuto nel casertano una varietà diversa.Dalle uve Coda di Volpe si possono ottenere vini pregiati; Mincione a tal proposito scrive: “ (…) si ricava un vino di buona produzione alcolica, dal colore brillante, giallo dorato. Il vino estrinseca , altresì, un odore vinoso con leggero aroma gradevole. Nel primo anno di vita del prodotto si rivela leggermente dolce; ma, invecchiato, assume un sapore asciutto e non molto ricco di corpo”. Agronomicamente il Coda di Volpe è un vitigno poco vigoroso con produzioni non eccessive e maturazione mediamente precoce, nella seconda quindicina di settembre. A maturazione raggiunge elevati livelli in zuccheri e un medio tenore in acidi. Il Coda di Volpe è raccomandato per tutte le province campane ad esclusione del Salernitano, dov’è autorizzata. È alla base del vino monovarietale della DOC Sannio e partecipa alla base ampelografica del Solopaca Bianco.
Il Coda di Volpe è un vitigno in forte espansione sebbene solo fino a qualche anno fà fosse considerato un vitigno minore. Il suo nome deriva dal latino "Cauda Vulpium", per la sua forma caratteristica che ricorda appunto la coda della volpe. La sua storia è particolarmente affascinante se si considerano oltre all’antichità che ne contraddistingue le origini anche i numerosi casi di sinonimia e omonimia segnalati da numerosi studiosi.Il primo a citare il Coda di Volpe è, in Naturalis Historia, Plinio il Vecchio che, trattando dei vitigni adatti ad essere allevati a pergola scrive: “minus tamen, caudas vulpium imitata, alopecia”. Fu il Porta nel 1584 a sostenere che con il nome di Coda di Volpe si coltiva un vitigno identificabile con le uve alopecia sebbene tale ipotesi non fosse suffragata da elementi certi.Altro caso di studio per gli ampelografi campani è stata la sinonimia tra il Coda di Volpe e il Pallagrello. A riguardo è il Froio a produrre la maggior quantità di notizie. Egli descrive prima nel 1875 e poi nel 1878 la Coda di Volpe utilizzando anche i sinonimi di Pallagrella bianca e Durante. Più tardi tratterà dei vitigni coltivati in Campania dando notizia di una Coda di Volpe diffusa a Torre del Greco e del Pallagrello presente nel casertano ritenendo quindi diverse le due varietà.Ad oggi, l’esame comparativo dei due vitigni unito agli studi di caratterizzazione ampelografica e molecolare non hanno ancora chiarito il caso. È stato comunque accertato che il Coda di Volpe non ha tra i suoi sinonimi il Coda di Pecora denominazione con la quale è conosciuto nel casertano una varietà diversa.Dalle uve Coda di Volpe si possono ottenere vini pregiati; Mincione a tal proposito scrive: “ (…) si ricava un vino di buona produzione alcolica, dal colore brillante, giallo dorato. Il vino estrinseca , altresì, un odore vinoso con leggero aroma gradevole. Nel primo anno di vita del prodotto si rivela leggermente dolce; ma, invecchiato, assume un sapore asciutto e non molto ricco di corpo”. Agronomicamente il Coda di Volpe è un vitigno poco vigoroso con produzioni non eccessive e maturazione mediamente precoce, nella seconda quindicina di settembre. A maturazione raggiunge elevati livelli in zuccheri e un medio tenore in acidi. Il Coda di Volpe è raccomandato per tutte le province campane ad esclusione del Salernitano, dov’è autorizzata. È alla base del vino monovarietale della DOC Sannio e partecipa alla base ampelografica del Solopaca Bianco.
vini&co.
lo sciascinoso
Lo Sciascinoso è più noto in Campania con il suo sinonimo Olivella che deriva dalla forma allungata dell’acino, oliveforme. Oggi in Campania l’Olivella è molto diffusa ed in essa si possono riconoscere due gruppi principali di biotipi: uno riferibile allo Sciascinoso e l’altro riferibile alla vera Olivella. Il termine Sciascinoso, e tutte le sue variazioni, probabilmente era solo utilizzato nelle provincie di Avellino e Salerno. Carlucci, nel 1909, nella sua monografia in Ampelographie di Viala et Vermorel afferma che l’Olivella e lo Sciascinoso siano varietà ben distinte sostenendo: “lo Sciascinoso è molto diffuso nelle provincie di Avellino e Salerno, meno in quella di Napoli e dintorni”.Un importante giudizio enologico sul vino di Sciascinoso lo danno Carlucci: “colore rosso rubino intenso o rosso sangue con bagliori rosso vivo, odore vinoso, gradevole, sapore leggermente acido, fresco, astringente, ben sostenuto e di media forza” e successivamente Mincione: “il vino di Sciascinoso, specialmente quando si di raspa l’uva, è un buon vino da pasto, acidulo, gradevole, stringente in giusto grado, di media robustezza, molto colorato e spuma rossa, apprezzata dai commercianti”.Lo Sciascinoso è un vitigno molto vigoroso con germogliamento precoce che predilige forme di allevamento a spalliera. Raggiunge la maturazione tra la seconda e la terza decade di ottobre, con un’acidità totale alta e un basso tenore in zuccheri. Non ha particolari esigenze circa la scelta del portainnestoA riprova della forte tipicizzazzione, lo Sciascinoso è un vitigno raccomandato solo per la Campania. Tra le DOC sannite solo la Sannio presenta un vino prodotto con uve Sciascinoso.
Lo Sciascinoso è più noto in Campania con il suo sinonimo Olivella che deriva dalla forma allungata dell’acino, oliveforme. Oggi in Campania l’Olivella è molto diffusa ed in essa si possono riconoscere due gruppi principali di biotipi: uno riferibile allo Sciascinoso e l’altro riferibile alla vera Olivella. Il termine Sciascinoso, e tutte le sue variazioni, probabilmente era solo utilizzato nelle provincie di Avellino e Salerno. Carlucci, nel 1909, nella sua monografia in Ampelographie di Viala et Vermorel afferma che l’Olivella e lo Sciascinoso siano varietà ben distinte sostenendo: “lo Sciascinoso è molto diffuso nelle provincie di Avellino e Salerno, meno in quella di Napoli e dintorni”.Un importante giudizio enologico sul vino di Sciascinoso lo danno Carlucci: “colore rosso rubino intenso o rosso sangue con bagliori rosso vivo, odore vinoso, gradevole, sapore leggermente acido, fresco, astringente, ben sostenuto e di media forza” e successivamente Mincione: “il vino di Sciascinoso, specialmente quando si di raspa l’uva, è un buon vino da pasto, acidulo, gradevole, stringente in giusto grado, di media robustezza, molto colorato e spuma rossa, apprezzata dai commercianti”.Lo Sciascinoso è un vitigno molto vigoroso con germogliamento precoce che predilige forme di allevamento a spalliera. Raggiunge la maturazione tra la seconda e la terza decade di ottobre, con un’acidità totale alta e un basso tenore in zuccheri. Non ha particolari esigenze circa la scelta del portainnestoA riprova della forte tipicizzazzione, lo Sciascinoso è un vitigno raccomandato solo per la Campania. Tra le DOC sannite solo la Sannio presenta un vino prodotto con uve Sciascinoso.
vini&co.
passerina marchigiana
Vitigno appartenente alla grande famiglia dei trebbiani, è considerato autoctono dell’Italia centro – orientale. Ha trovato il suo areale di diffusione soprattutto nelle Marche e, sotto altre denominazioni, in Abruzzo ed in Romagna. Oltre alle sinonimie riportate nella pubblicazione della Regione Marche, va ricordato come sia stata dimostrata scientificamente la sua identità con il Pagadebito gentile di Romagna ed allo stesso tempo smentita la eventuale identità con il Bombino bianco. Con la trasformazione della viticoltura promiscua in specializzata avvenuta negli anni ’60 la sua diffusione ha subito una contrazione a favore del Trebbiano Toscano, vitigno più produttivo ma decisamente meno valido dal punto di vista qualitativo. Vitigno dotato di buona produttività e di un buon livello qualitativo delle uve, soprattutto per quello che riguarda la componente acidica. Il contenimento delle rese produttive potrebbe migliorare il livello zuccherino dei mosti. E’ attualmente disponibile un clone omologato dall’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano V. (TV) congiuntamente con l’ITAS di Ascoli Piceno ed uno selezionato dall’Università di Bari congiuntamente con la Regione Abruzzo. Sono tuttavia in corso anche selezioni clonali e sanitarie ad opera dell’ASSAM e dell’Università Politecnica delle Marche. Può essere vinificato in purezza oppure in uvaggio con altri vitigni. Nel primo caso fornisce un vino decisamente tipico, dotato di buona intensità aromatica e dal gusto pieno. La sua ricchezza nella componente acidica permette la spumantizzazione sia con il medodo Charmat che con quello classico. La versatilità di questo vitigno ha favorito la sua introduzione nella DOC "Offida" in cui, oltre alla tipologia "Spumante" ritroviamo anche quelle "Vino Santo" e "Passito". Soprattutto nella zona del fermano viene anche utilizzato per la produzione del "vino cotto". Il Passerina, in uvaggio con il Pecorino, ha dato un contributo notevole al miglioramento delle caratteristiche qualitative della DOC "Falerio dei Colli Ascolani", che in tempi non lontani poteva essere prodotto anche esclusivamente con il Trebbiano Toscano.
Vitigno appartenente alla grande famiglia dei trebbiani, è considerato autoctono dell’Italia centro – orientale. Ha trovato il suo areale di diffusione soprattutto nelle Marche e, sotto altre denominazioni, in Abruzzo ed in Romagna. Oltre alle sinonimie riportate nella pubblicazione della Regione Marche, va ricordato come sia stata dimostrata scientificamente la sua identità con il Pagadebito gentile di Romagna ed allo stesso tempo smentita la eventuale identità con il Bombino bianco. Con la trasformazione della viticoltura promiscua in specializzata avvenuta negli anni ’60 la sua diffusione ha subito una contrazione a favore del Trebbiano Toscano, vitigno più produttivo ma decisamente meno valido dal punto di vista qualitativo. Vitigno dotato di buona produttività e di un buon livello qualitativo delle uve, soprattutto per quello che riguarda la componente acidica. Il contenimento delle rese produttive potrebbe migliorare il livello zuccherino dei mosti. E’ attualmente disponibile un clone omologato dall’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano V. (TV) congiuntamente con l’ITAS di Ascoli Piceno ed uno selezionato dall’Università di Bari congiuntamente con la Regione Abruzzo. Sono tuttavia in corso anche selezioni clonali e sanitarie ad opera dell’ASSAM e dell’Università Politecnica delle Marche. Può essere vinificato in purezza oppure in uvaggio con altri vitigni. Nel primo caso fornisce un vino decisamente tipico, dotato di buona intensità aromatica e dal gusto pieno. La sua ricchezza nella componente acidica permette la spumantizzazione sia con il medodo Charmat che con quello classico. La versatilità di questo vitigno ha favorito la sua introduzione nella DOC "Offida" in cui, oltre alla tipologia "Spumante" ritroviamo anche quelle "Vino Santo" e "Passito". Soprattutto nella zona del fermano viene anche utilizzato per la produzione del "vino cotto". Il Passerina, in uvaggio con il Pecorino, ha dato un contributo notevole al miglioramento delle caratteristiche qualitative della DOC "Falerio dei Colli Ascolani", che in tempi non lontani poteva essere prodotto anche esclusivamente con il Trebbiano Toscano.
domenica 25 ottobre 2009
eventi&co.
una domenica "golosa"
Appena usciti dall'autostrada ed imboccata la statale in direzione Perugia, pare di entrare con prepotenza laddove, forse, solo per i pochi autoctoni abitanti del luogo, è difficile rendersi conto della magnificenza della natura viva intorno a noi.Cambia il paesaggio,il colorito verde della boscaglia con le sue macchioline rossastre,la strada che pare perdersi all'orizzonte all'interno della tela di colore,l'odore che muta pian piano facendosi sempre più terraiolo, come se quel miscuglio di essenze vegetali cercasse di volersi esprimere nella sua naturalezza coinvolgendo l'ignaro passante.Intanto si prosegue,i venditori di castagne lungo la strada ci ricordano che c'è ancora gente che vive e sopravvive dei frutti della natura,gente che non solo trae beneficio da essa ma, bensì,nutre un profondo rispetto nei suoi confronti e diventandovi discretamente parte integrante;è ancora piantagioni di lenticchie di altissima qualità(d.o.p.),di patate rosse tipiche del posto,di cipolle e allevamenti che s'intravedono mentre lo sguardo corre veloce assieme alla macchina.La presenza sempre più costante di abitazioni indica l'adiacenza ad un centro cittadino,siamo nei pressi della città del cioccolato,Perugia.L'entrata è di quelle che possono sconvolgere,i sensi si arricchiscono di percezioni che passano attraverso le numerose vie cittadine vestite di dolcezza,gente tutt'intorno che si aggira tra le varie creazioni artigiane,facce sorridenti,occhi pieni di soddisfazione,vivacità che ti travolge lasciando che per un attimo il tempo si fermi in uno status di pienezza calma.Tutto questo è "l'eurochocolate",festival del cioccolato,l'evento più dolce dell'anno,ma anche un viaggio che passa attraverso la tradizione di questi luoghi immutati nel tempo,e dove è possibile per una giornata compiere un viaggio in totale armonia con l'incantevole e magico paesaggio circostante.
Appena usciti dall'autostrada ed imboccata la statale in direzione Perugia, pare di entrare con prepotenza laddove, forse, solo per i pochi autoctoni abitanti del luogo, è difficile rendersi conto della magnificenza della natura viva intorno a noi.Cambia il paesaggio,il colorito verde della boscaglia con le sue macchioline rossastre,la strada che pare perdersi all'orizzonte all'interno della tela di colore,l'odore che muta pian piano facendosi sempre più terraiolo, come se quel miscuglio di essenze vegetali cercasse di volersi esprimere nella sua naturalezza coinvolgendo l'ignaro passante.Intanto si prosegue,i venditori di castagne lungo la strada ci ricordano che c'è ancora gente che vive e sopravvive dei frutti della natura,gente che non solo trae beneficio da essa ma, bensì,nutre un profondo rispetto nei suoi confronti e diventandovi discretamente parte integrante;è ancora piantagioni di lenticchie di altissima qualità(d.o.p.),di patate rosse tipiche del posto,di cipolle e allevamenti che s'intravedono mentre lo sguardo corre veloce assieme alla macchina.La presenza sempre più costante di abitazioni indica l'adiacenza ad un centro cittadino,siamo nei pressi della città del cioccolato,Perugia.L'entrata è di quelle che possono sconvolgere,i sensi si arricchiscono di percezioni che passano attraverso le numerose vie cittadine vestite di dolcezza,gente tutt'intorno che si aggira tra le varie creazioni artigiane,facce sorridenti,occhi pieni di soddisfazione,vivacità che ti travolge lasciando che per un attimo il tempo si fermi in uno status di pienezza calma.Tutto questo è "l'eurochocolate",festival del cioccolato,l'evento più dolce dell'anno,ma anche un viaggio che passa attraverso la tradizione di questi luoghi immutati nel tempo,e dove è possibile per una giornata compiere un viaggio in totale armonia con l'incantevole e magico paesaggio circostante.
sabato 24 ottobre 2009
eventi&co.
salone internazionale del gusto-torino-dal 23 al 27 ottobre 2009
All’inizio furono Gran Menu a Verona e Milano Golosa, 1994, due manifestazioni che solo i fedelissimi di Slow Food ricordano, che contenevano già alcuni degli elementi connotanti di quello che sarà poi il Salone del Gusto sperimentale del 1996, in una minuscola porzione del Lingotto a Torino.L’esplosione, tuttavia, avviene due anni più tardi, con la seconda edizione, l’introduzione del Mercato e oltre 120.000 visitatori che ribaltano l’approccio elitario alla gastronomia di qualità, trasformando in piacere e in diritto un interesse che ancora si pensava fosse appannaggio di pochi. Il viaggio, poi, continua incalzante, andando in parallelo con le avanguardie che iniziavano ad analizzare criticamente il tema della globalizzazione. Nel 2000 si presentano i Presìdi italiani, nel 2002 quelli internazionali e vi si affianca la terza edizione del Premio Slow Food, il seme dal quale due anni più tardi, germoglierà Terra Madre, l’incontro mondiale delle comunità del cibo che nella prima edizione raccoglie 5.000 contadini, artigiani e pescatori da 130 paesi del mondo (www.terramadre.info).
All’inizio furono Gran Menu a Verona e Milano Golosa, 1994, due manifestazioni che solo i fedelissimi di Slow Food ricordano, che contenevano già alcuni degli elementi connotanti di quello che sarà poi il Salone del Gusto sperimentale del 1996, in una minuscola porzione del Lingotto a Torino.L’esplosione, tuttavia, avviene due anni più tardi, con la seconda edizione, l’introduzione del Mercato e oltre 120.000 visitatori che ribaltano l’approccio elitario alla gastronomia di qualità, trasformando in piacere e in diritto un interesse che ancora si pensava fosse appannaggio di pochi. Il viaggio, poi, continua incalzante, andando in parallelo con le avanguardie che iniziavano ad analizzare criticamente il tema della globalizzazione. Nel 2000 si presentano i Presìdi italiani, nel 2002 quelli internazionali e vi si affianca la terza edizione del Premio Slow Food, il seme dal quale due anni più tardi, germoglierà Terra Madre, l’incontro mondiale delle comunità del cibo che nella prima edizione raccoglie 5.000 contadini, artigiani e pescatori da 130 paesi del mondo (www.terramadre.info).
eventi&co.
wine show-torino-lingotto-dal 24 al 26 ottobre 2009
Venite a metterci il naso… è l’invito rivolto ad eno-appassionati, operatori, semplici curiosi lanciato dal Wine Show, che da domani (fino al 26 ottobre) è di scena al Lingotto Fiere di Torino. Lungo e ricco il palinsesto degli appuntamenti, eventi, profumi e i mille sapori dei vini d’Italia (www.wineshow.it), con in primo piano le etichette quotidiane delle cantine del Belpaese che, con l’obiettivo di riconquistare il mercato interno, presenteranno al pubblico i propri vini, accessibili, immediati ed economici. Vino quotidiano e bere consapevole i temi dell’edizione di quest’anno.
Venite a metterci il naso… è l’invito rivolto ad eno-appassionati, operatori, semplici curiosi lanciato dal Wine Show, che da domani (fino al 26 ottobre) è di scena al Lingotto Fiere di Torino. Lungo e ricco il palinsesto degli appuntamenti, eventi, profumi e i mille sapori dei vini d’Italia (www.wineshow.it), con in primo piano le etichette quotidiane delle cantine del Belpaese che, con l’obiettivo di riconquistare il mercato interno, presenteranno al pubblico i propri vini, accessibili, immediati ed economici. Vino quotidiano e bere consapevole i temi dell’edizione di quest’anno.
venerdì 23 ottobre 2009
insalate&co.
insalata di patate:
Sbollentiamo in acqua leggermente salata 3-4 patate lasciandole con la loro buccia,nel frattempo tagliamo finemente del finocchietto selvatico,scaldiamo in un pentolino dei pinoli e sbianchiamo delle rondelle di cipolla rossa.Togliamo dall'acqua le patate ancora al dente,priviamole della buccia e tagliamo a cubetti di circa 3 cm,le mettiamo in una ciotola aggiungendo sale e pepe,i pinoli,la cipolla e il finocchietto,infine condiamo con un emulsione di olio e limone.
Sbollentiamo in acqua leggermente salata 3-4 patate lasciandole con la loro buccia,nel frattempo tagliamo finemente del finocchietto selvatico,scaldiamo in un pentolino dei pinoli e sbianchiamo delle rondelle di cipolla rossa.Togliamo dall'acqua le patate ancora al dente,priviamole della buccia e tagliamo a cubetti di circa 3 cm,le mettiamo in una ciotola aggiungendo sale e pepe,i pinoli,la cipolla e il finocchietto,infine condiamo con un emulsione di olio e limone.
insalate&co.
insalata del bosco:
Procuriamoci dei bei funghi champignon,galletti,cardoncelli e porcini,li puliamo bene e tagliamo gli champignon ed i porcini a fettine sottili,mentre, i funghi galletti li scottiamo qualche minuto in padella con uno spicchio d'aglio ed un pò di timo,i cardoncelli invece li scottiamo alla brace un paio di minuti.In una ciotola mettiamo i vari funghi preparati,delle foglioline di prezzemolo senza tagliarle ma ben sfogliate singolarmente,delle noci spezzettate grossolanamente,dei cubetti di pane di 2 cm circa aromatizzati al rosmarino,della santoreggia, delle scaglie di parmigiano,olio,sale e pepe.
Procuriamoci dei bei funghi champignon,galletti,cardoncelli e porcini,li puliamo bene e tagliamo gli champignon ed i porcini a fettine sottili,mentre, i funghi galletti li scottiamo qualche minuto in padella con uno spicchio d'aglio ed un pò di timo,i cardoncelli invece li scottiamo alla brace un paio di minuti.In una ciotola mettiamo i vari funghi preparati,delle foglioline di prezzemolo senza tagliarle ma ben sfogliate singolarmente,delle noci spezzettate grossolanamente,dei cubetti di pane di 2 cm circa aromatizzati al rosmarino,della santoreggia, delle scaglie di parmigiano,olio,sale e pepe.
insalate&co.
insalata greco-italiana:
Tagliamo dei cubetti piccoli di feta greca,prendiamo una cipolla rossa di tropea e la sbollentiamo alcuni secondi e poi la passiamo in acqua e ghiaccio ben sfogliata a rondelle,sminuzziamo dei capperini di pantelleria,qualche fogliolina di origano fresco,olive greche,pomodirino pachino tagliato in 4,olio d'oliva ed un pizzico di pepe è l'insalata è pronta.
Tagliamo dei cubetti piccoli di feta greca,prendiamo una cipolla rossa di tropea e la sbollentiamo alcuni secondi e poi la passiamo in acqua e ghiaccio ben sfogliata a rondelle,sminuzziamo dei capperini di pantelleria,qualche fogliolina di origano fresco,olive greche,pomodirino pachino tagliato in 4,olio d'oliva ed un pizzico di pepe è l'insalata è pronta.
insalate&co.
insalata di agrumi:
Procuriamoci dei limoni belli grandi e dolci e li tagliamo a cubetti tenendo anche la buccia,facciamo lo stesso con delle arance rosse e gialle,lo stesso con un pompelmo rosa togliendo la buccia.I limoni a cubetti come detto, per le arance ed il pompelo peliamo a vivo ricavandone degli spicchi e condiamo con un emulsione di olio d'oliva e poco aceto balsamico,saliamo e pepiamo leggermente.
Procuriamoci dei limoni belli grandi e dolci e li tagliamo a cubetti tenendo anche la buccia,facciamo lo stesso con delle arance rosse e gialle,lo stesso con un pompelmo rosa togliendo la buccia.I limoni a cubetti come detto, per le arance ed il pompelo peliamo a vivo ricavandone degli spicchi e condiamo con un emulsione di olio d'oliva e poco aceto balsamico,saliamo e pepiamo leggermente.
insalate&co.
insalata di zucchine:
Tagliamo a fettine sottilissime delle zucchine verdi classiche,delle zucchine bianche piccole,zucchine gialle.Prepariamo un emulsione con olio e limone(oppure aceto,salsa di soia) saliamo,pepiamo leggermente,mentuccia tritata(a scelta altre erbe) e condiamo l'insalata.
Tagliamo a fettine sottilissime delle zucchine verdi classiche,delle zucchine bianche piccole,zucchine gialle.Prepariamo un emulsione con olio e limone(oppure aceto,salsa di soia) saliamo,pepiamo leggermente,mentuccia tritata(a scelta altre erbe) e condiamo l'insalata.
insalate&co.
insalata di sedano:
Tagliamo un bel cuore di sedano in modo longitudinale a fette e conserviamo le foglioline centrali più verdi,poi tagliamo sempre a fettine molto sottili un sedano rapa.
Prepariamo un emulsione con olio d'oliva e succo di limone,saliamo il sedano,(a scelta pepiamo con del pepe bianco) e condiamo l'insalata.
Tagliamo un bel cuore di sedano in modo longitudinale a fette e conserviamo le foglioline centrali più verdi,poi tagliamo sempre a fettine molto sottili un sedano rapa.
Prepariamo un emulsione con olio d'oliva e succo di limone,saliamo il sedano,(a scelta pepiamo con del pepe bianco) e condiamo l'insalata.
risotto&co.
risotto al porro mantecato alla robiola:
Facciamo un fondo con poca cipolla,tostiamo il riso carnaroli ed iniziamo ad aggiungere brodo vegetale poco alla volta.Procuriamoci dei porri freschi e con essi prepariamo una crema sbollentandoli in acqua leggermente salata per poi passarli al mixer e ridurli a crema.Aggiungiamo un pò di porri tagliuzzati a striscioline nel risotto a metà cottura ed intanto iniziamo a versare anche la crema di porri poco alla volta e regoliamo di pepe.Alla fine,terminata la cottura del riso,mantechiamo con la robiola fresca,aggiungiamo un pò di reggiano 36 mesi grattugiato.
Facciamo un fondo con poca cipolla,tostiamo il riso carnaroli ed iniziamo ad aggiungere brodo vegetale poco alla volta.Procuriamoci dei porri freschi e con essi prepariamo una crema sbollentandoli in acqua leggermente salata per poi passarli al mixer e ridurli a crema.Aggiungiamo un pò di porri tagliuzzati a striscioline nel risotto a metà cottura ed intanto iniziamo a versare anche la crema di porri poco alla volta e regoliamo di pepe.Alla fine,terminata la cottura del riso,mantechiamo con la robiola fresca,aggiungiamo un pò di reggiano 36 mesi grattugiato.
pesce&co.
merluzzo impanato al forno:
Sfilettiamo un merluzzo di dimensioni medie(200grammi circa),lo apriamo a libro,saliamo,pepiamo e lo impaniamo con del pan grattato aromatizzato al prezzemolo e maggiorana ed un po' d'aglio tritato.Appena finito di panare versiamo un filo d'olio ed inforniamo a 200 gradi per circa 15-20 minuti(a seconda del grado di doratura desiderata).
Sfilettiamo un merluzzo di dimensioni medie(200grammi circa),lo apriamo a libro,saliamo,pepiamo e lo impaniamo con del pan grattato aromatizzato al prezzemolo e maggiorana ed un po' d'aglio tritato.Appena finito di panare versiamo un filo d'olio ed inforniamo a 200 gradi per circa 15-20 minuti(a seconda del grado di doratura desiderata).
pasta&co.
paccheri ai gamberi ed asparagi:
Prepariamo un brodo con i gusci e le teste dei gamberi sgusciati,appena sarà pronto il brodo passiamo alla preparazione di un fondo con olio,peperoncino piccante fresco, e cipollotto fresco e facciamo soffriggere alcuni minuti,intanto buttiamo i paccheri in acqua salata per la cottura.Uniamo le punte di asparagi al fondo di cottura bagnando di tanto in tanto con il brodo di gamberi,ed i pomodirini pachino(bastano 3-4 solo di colore) ,quasi a cottura ultimata della pasta uniamo i gamberi agli asparagi,una grattuggiata di scorza di limone,uniamo i paccheri e mantechiamo alcuni minuti con un filo d'olio all'occorrenza,pepe e prezzemolo tritato.
Prepariamo un brodo con i gusci e le teste dei gamberi sgusciati,appena sarà pronto il brodo passiamo alla preparazione di un fondo con olio,peperoncino piccante fresco, e cipollotto fresco e facciamo soffriggere alcuni minuti,intanto buttiamo i paccheri in acqua salata per la cottura.Uniamo le punte di asparagi al fondo di cottura bagnando di tanto in tanto con il brodo di gamberi,ed i pomodirini pachino(bastano 3-4 solo di colore) ,quasi a cottura ultimata della pasta uniamo i gamberi agli asparagi,una grattuggiata di scorza di limone,uniamo i paccheri e mantechiamo alcuni minuti con un filo d'olio all'occorrenza,pepe e prezzemolo tritato.
news&co.
cose dell'altro pane
La nostra Azienda si propone sul mercato del "senza glutine" per dare una risposta efficace e soddisfacente all'esigenza crescente di cibi freschi e genuini di chi si trova alle prese con le problematiche connesse alle intolleranze o allergie al glutine. Forti di questo proposito, con l'aiuto delle agevolazioni offerte dalla legge Bersani 266/97 per lo sviluppo di imprenditoria nelle aree periferiche, abbiamo realizzato "ex novo", all’interno dei vecchi forni del Monastero
Benedettino di S. Giovanni Battista a Monte Mario, un moderno ed attrezzato laboratorio di per la produzione ed il confezionamento artigianale di cibi freschi con l'utilizzo di farine e componenti esclusivamente "senza glutine".Il nostro laboratorio nel febbraio 2005 è stato autorizzato dal Ministero della Salute alle preparazioni dietetiche “senza glutine” secondo quanto definito dal Decreto Legge 111/92 .
http://www.cosedellaltropane.com/home.htm
http://www.youtube.com/watch?v=FXRBV2mjQLY
La nostra Azienda si propone sul mercato del "senza glutine" per dare una risposta efficace e soddisfacente all'esigenza crescente di cibi freschi e genuini di chi si trova alle prese con le problematiche connesse alle intolleranze o allergie al glutine. Forti di questo proposito, con l'aiuto delle agevolazioni offerte dalla legge Bersani 266/97 per lo sviluppo di imprenditoria nelle aree periferiche, abbiamo realizzato "ex novo", all’interno dei vecchi forni del Monastero
Benedettino di S. Giovanni Battista a Monte Mario, un moderno ed attrezzato laboratorio di per la produzione ed il confezionamento artigianale di cibi freschi con l'utilizzo di farine e componenti esclusivamente "senza glutine".Il nostro laboratorio nel febbraio 2005 è stato autorizzato dal Ministero della Salute alle preparazioni dietetiche “senza glutine” secondo quanto definito dal Decreto Legge 111/92 .
http://www.cosedellaltropane.com/home.htm
http://www.youtube.com/watch?v=FXRBV2mjQLY
pasta&co.
chitarrina al salmone:
Prepariamo in una pentola olio e scalogno a soffriggere,mentre nella pentola iniziamo a cuocere la pasta,facciamo dei dadini di salmone fresco e aggiungiamoli al fondo di cottura,sale e pepe e grattuggiamo della scorza di lime,poi aggiungiamo a scelta delle foglie di spinacini o della rucola e subito dopo della robiola per creare cremosità,scoliamo la pasta e mantechiamo.
Prepariamo in una pentola olio e scalogno a soffriggere,mentre nella pentola iniziamo a cuocere la pasta,facciamo dei dadini di salmone fresco e aggiungiamoli al fondo di cottura,sale e pepe e grattuggiamo della scorza di lime,poi aggiungiamo a scelta delle foglie di spinacini o della rucola e subito dopo della robiola per creare cremosità,scoliamo la pasta e mantechiamo.
pasta&co.
candele al ragù d'astice:
Sgusciamo a vivo l'astice separando la polpa dai gusci e preparando con quest'ultimi un brodo ristretto ed intanto facendo la polpa a pezzettini come un ragù.Spezzettiamo le candele mettendole a cuocere,facciamo un fondo con olio,peperoncino fresco e aglio schiacciato,bagnamo con un pò di brodo e pochi minuti prima della cottura della pasta aggiungiamo la polpa d'astice e grattuggiamo un pò di scorza di limone,uniamo le candele a metà cottura e finiamo bagnando di brodo ogni tanto,concludiamo con prezzemolo tritato e filo d'olio.
Sgusciamo a vivo l'astice separando la polpa dai gusci e preparando con quest'ultimi un brodo ristretto ed intanto facendo la polpa a pezzettini come un ragù.Spezzettiamo le candele mettendole a cuocere,facciamo un fondo con olio,peperoncino fresco e aglio schiacciato,bagnamo con un pò di brodo e pochi minuti prima della cottura della pasta aggiungiamo la polpa d'astice e grattuggiamo un pò di scorza di limone,uniamo le candele a metà cottura e finiamo bagnando di brodo ogni tanto,concludiamo con prezzemolo tritato e filo d'olio.
pasta&co.
i miei spaghetti alle vongole:
Apriamo le vongole in una pentola tenendo da parte valve e liquido in una ciotola.Mettiamo a cuocere gli spaghetti medi,prepariamo un fondo con olio,aglio tritato,peperoncino fresco e gambi di prezzemolo,aggiungiamo dei pomodorini tagliati e teniamoli in cottura fin quando hanno rilasciato il loro sughetto e poi li togliamo,durante la procedura bagnamo con il liquido dei molluschi ogni tanto,poco prima della cotura della pasta , buttiamo le vongole,saltiamo la pasta in pentola aggiungendo un filo d'olio e prezzemolo tritato.
Apriamo le vongole in una pentola tenendo da parte valve e liquido in una ciotola.Mettiamo a cuocere gli spaghetti medi,prepariamo un fondo con olio,aglio tritato,peperoncino fresco e gambi di prezzemolo,aggiungiamo dei pomodorini tagliati e teniamoli in cottura fin quando hanno rilasciato il loro sughetto e poi li togliamo,durante la procedura bagnamo con il liquido dei molluschi ogni tanto,poco prima della cotura della pasta , buttiamo le vongole,saltiamo la pasta in pentola aggiungendo un filo d'olio e prezzemolo tritato.
giovedì 22 ottobre 2009
movie&co.
Chi non rischia non beve champagne
“Chi non rischia non beve champagne” racconta le storie di giovani donne che lasciano l'UKraina per cercare la loro fortuna in Occidente. Qualcuna spera di trovare un marito, altre sono convinte di avere un contatto per un lavoro serio, qualcuna è disposta a tutto perché, come recita un vecchio proverbio russo, "chi non rischia non beve champagne". Nessuna si aspettava l'inferno che ha trovato. Chi non rischia non beve champagne segue i viaggi di alcune donne e incontra quelle che hanno provato: volti assenti di donne segnate da esperienze pesantissime: Anja e' finita in un bordello polacco, Natasha si è trasformata in "trafficante di fortuna" che adesca ragazze giovanissime per convincerle a diventare modelle della sua improbabile agenzia, Irina ha speso tutti i suoi risparmi per un visto di quindici giorni in Italia ….Importante per tutte era partire, e adesso tutte "hanno visto l'Occidente". Fin troppo facile la metafora della falena attirata dal bagliore e finita bruciata. Sono storie di persone semplici in cui però si racconta qualcosa di importante che riguarda l'Occidente, la civiltà nata sul valore dell'individuo come irripetibile persona, e ormai diventata idolatria della merce, dove chi è povero abbastanza può essere comprato, spostato e, quando serve, rimpiazzato.Il documentario ha avuto una menzione speciale al concorso “Premio Libero bizzarri” 2003.Dichiarazione della regista: “Viaggiando per l'Ukraina, la Romania, la Moldaviasi incontrano soltanto donne che vogliono andarsene, lasciare tutto e cercare fortuna altrove. Fino a pochi anni fa a noi, donne occidentali da questa parte del Muro, le donne dell'Est sembravano istruite e coscienti, professioniste o operaie, giovani ginnaste impeccabili, astronaute che sorridevano confidenti accanto ai loro colleghi, scienziate… Donne che partecipavano, con un certo orgoglio, alla costruzione di una società. Oggi tutte sembrano inseguire un semplice impulso: partire per partire, ad ogni costo".
http://www.docume.org/page/schedafilm.asp?id=91
“Chi non rischia non beve champagne” racconta le storie di giovani donne che lasciano l'UKraina per cercare la loro fortuna in Occidente. Qualcuna spera di trovare un marito, altre sono convinte di avere un contatto per un lavoro serio, qualcuna è disposta a tutto perché, come recita un vecchio proverbio russo, "chi non rischia non beve champagne". Nessuna si aspettava l'inferno che ha trovato. Chi non rischia non beve champagne segue i viaggi di alcune donne e incontra quelle che hanno provato: volti assenti di donne segnate da esperienze pesantissime: Anja e' finita in un bordello polacco, Natasha si è trasformata in "trafficante di fortuna" che adesca ragazze giovanissime per convincerle a diventare modelle della sua improbabile agenzia, Irina ha speso tutti i suoi risparmi per un visto di quindici giorni in Italia ….Importante per tutte era partire, e adesso tutte "hanno visto l'Occidente". Fin troppo facile la metafora della falena attirata dal bagliore e finita bruciata. Sono storie di persone semplici in cui però si racconta qualcosa di importante che riguarda l'Occidente, la civiltà nata sul valore dell'individuo come irripetibile persona, e ormai diventata idolatria della merce, dove chi è povero abbastanza può essere comprato, spostato e, quando serve, rimpiazzato.Il documentario ha avuto una menzione speciale al concorso “Premio Libero bizzarri” 2003.Dichiarazione della regista: “Viaggiando per l'Ukraina, la Romania, la Moldaviasi incontrano soltanto donne che vogliono andarsene, lasciare tutto e cercare fortuna altrove. Fino a pochi anni fa a noi, donne occidentali da questa parte del Muro, le donne dell'Est sembravano istruite e coscienti, professioniste o operaie, giovani ginnaste impeccabili, astronaute che sorridevano confidenti accanto ai loro colleghi, scienziate… Donne che partecipavano, con un certo orgoglio, alla costruzione di una società. Oggi tutte sembrano inseguire un semplice impulso: partire per partire, ad ogni costo".
http://www.docume.org/page/schedafilm.asp?id=91
pasta&co.
la pasta al forno
Procuriamoci dei tortiglioni di grandezza media e li cuociamo in acqua salata finendo la cottura alcuni minuti prima di quelli previsti a seconda della tipologia della pasta.
Sminuzziamo una mozzarella bella fresca(meglio se lasciata,tagliata in 2,sgocciolare dal latte eccessivo un paio d'ore) molto finemente,da provare anche grattugiata;in un pentolino scaldiamo del ragù di pomodoro(a scelta anche solo sugo di pomodoro e basilico).Appena la pasta è pronta,la versiamo un una ciotola,condiamo con il ragù,una spolverata di parmigiano reggiano grattugiato,un po' di besciamella,tanto da dare un minimo di cremosità,del basilico spezzettato a mano e la mozzarella,amalgamiamo il tutto e versiamo in una pirofila da mettere in forno a 200gradi fino a doratura superficiale.
Procuriamoci dei tortiglioni di grandezza media e li cuociamo in acqua salata finendo la cottura alcuni minuti prima di quelli previsti a seconda della tipologia della pasta.
Sminuzziamo una mozzarella bella fresca(meglio se lasciata,tagliata in 2,sgocciolare dal latte eccessivo un paio d'ore) molto finemente,da provare anche grattugiata;in un pentolino scaldiamo del ragù di pomodoro(a scelta anche solo sugo di pomodoro e basilico).Appena la pasta è pronta,la versiamo un una ciotola,condiamo con il ragù,una spolverata di parmigiano reggiano grattugiato,un po' di besciamella,tanto da dare un minimo di cremosità,del basilico spezzettato a mano e la mozzarella,amalgamiamo il tutto e versiamo in una pirofila da mettere in forno a 200gradi fino a doratura superficiale.
pasta&co.
spaghetti alle cicale:
Cottura di una spaghetto medio,sbollentare le cicale qualche minuto, e dopo averle tolte dalla pentola tirare fuori la polpa e metterla da parte.Prepariamo il soffritto con aglio(meglio fresco),gambi di prezzemolo,peroncino piccante e, negli ultimi 5 minuti, prima che la pasta sia pronta,aggiungiamo la polpa di cicale con un pizzico di sale e pepe , alla fine mantechiamo insieme alla pasta finendo con un filo d'olio e del prezzemolo,ricordando di togliere i gambi di prezzemolo prima della mantecatura e regoliamo la densità del sughetto con l'aggiunta di acqua di cottura mentre saltiamo la pasta.
Cottura di una spaghetto medio,sbollentare le cicale qualche minuto, e dopo averle tolte dalla pentola tirare fuori la polpa e metterla da parte.Prepariamo il soffritto con aglio(meglio fresco),gambi di prezzemolo,peroncino piccante e, negli ultimi 5 minuti, prima che la pasta sia pronta,aggiungiamo la polpa di cicale con un pizzico di sale e pepe , alla fine mantechiamo insieme alla pasta finendo con un filo d'olio e del prezzemolo,ricordando di togliere i gambi di prezzemolo prima della mantecatura e regoliamo la densità del sughetto con l'aggiunta di acqua di cottura mentre saltiamo la pasta.
pasta&co.
paccheri alle zucchine e scampi:
Prepariamo un oretta circa prima un brodo strettino di gusci di scampi,buttiamo i paccheri in pentola,prepariamo in padella olio,1 spicchio d'aglio schiacciato,aggiungiamo qualche pomodorino a spicchi e sfumiamo con un pò di brodo di scampi,aggiungiamo 5 minuti prima della cottura della pasta le zucchine tagliate a striscioline, ancora un pò di brodo e mettiamo gli scampi all'ultimo minuto,poi la pasta che facciamo amalgamare in pentola con un goccio d'olio per un paio di minuti.
Prepariamo un oretta circa prima un brodo strettino di gusci di scampi,buttiamo i paccheri in pentola,prepariamo in padella olio,1 spicchio d'aglio schiacciato,aggiungiamo qualche pomodorino a spicchi e sfumiamo con un pò di brodo di scampi,aggiungiamo 5 minuti prima della cottura della pasta le zucchine tagliate a striscioline, ancora un pò di brodo e mettiamo gli scampi all'ultimo minuto,poi la pasta che facciamo amalgamare in pentola con un goccio d'olio per un paio di minuti.
eventi&co.
BORGO RURALE - Sabato 7 e Domenica 8 Novembre 2009 Treglio(ch)
La Pro Loco di Treglio, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale ha in programma di organizzare, anche per quest’anno, per i giorni 7 e 8 novembre 2009,il BORGO RURALE - Festa del Vino Novello, Castagne e Olio Nuovo.
Obiettivo di Borgo Rurale è quello di far incontrare il mondo agricolo rurale con quello turistico, proponendo momenti di vita contadina ed artigianale. Ciò consentirà alle aziende agricole ed artigianali di proporre ai turisti prodotti tipici della nostra Regione e, nel contempo, di godere delle bellezze naturalistiche e storiche che anche questa piccola parte dell’Abruzzo ha da offrire.
La Manifestazione sarà caratterizzata dall’allestimento di cantine tipiche contadine, nel borgo del centro storico del paese e dalla degustazione di vino novello, castagne e olio nuovo e piatti tipici della Frentania.
I primi preparativi, che cominciano dalla fine di luglio, ci vedono impegnati nell’allestimento di cantine, nei fondaci messi a disposizione dagli abitanti di Treglio, nella costruzione di capanne rigorosamente in legno, dislocate lungo tutto il percorso del borgo. In ogni angolo ed in ogni vicolo, sarà possible degustare oltre alle Castagne ai carboni, Vino Novello, Olio fresco di macina ed anche i piatti tipici del nostro territorio, rigorosamente preparati al momento, rispettando le vecchie tradizioni della nostra cucina, che solo le nostre massaie riescono magistralmente a farci assaporare.
Il Borgo Rurale non è una sagra: qui non troverete asettici “stand” bianchi, bensì autentiche cantine incastonate nell’architettura rurale del borgo, che trasmettono al visitatore l’atmosfera genuina di un tempo che qui è ancora segnato dai ritmi della tradizione contadina.
La Pro Loco di Treglio, con il patrocinio dell’Amministrazione Comunale ha in programma di organizzare, anche per quest’anno, per i giorni 7 e 8 novembre 2009,il BORGO RURALE - Festa del Vino Novello, Castagne e Olio Nuovo.
Obiettivo di Borgo Rurale è quello di far incontrare il mondo agricolo rurale con quello turistico, proponendo momenti di vita contadina ed artigianale. Ciò consentirà alle aziende agricole ed artigianali di proporre ai turisti prodotti tipici della nostra Regione e, nel contempo, di godere delle bellezze naturalistiche e storiche che anche questa piccola parte dell’Abruzzo ha da offrire.
La Manifestazione sarà caratterizzata dall’allestimento di cantine tipiche contadine, nel borgo del centro storico del paese e dalla degustazione di vino novello, castagne e olio nuovo e piatti tipici della Frentania.
I primi preparativi, che cominciano dalla fine di luglio, ci vedono impegnati nell’allestimento di cantine, nei fondaci messi a disposizione dagli abitanti di Treglio, nella costruzione di capanne rigorosamente in legno, dislocate lungo tutto il percorso del borgo. In ogni angolo ed in ogni vicolo, sarà possible degustare oltre alle Castagne ai carboni, Vino Novello, Olio fresco di macina ed anche i piatti tipici del nostro territorio, rigorosamente preparati al momento, rispettando le vecchie tradizioni della nostra cucina, che solo le nostre massaie riescono magistralmente a farci assaporare.
Il Borgo Rurale non è una sagra: qui non troverete asettici “stand” bianchi, bensì autentiche cantine incastonate nell’architettura rurale del borgo, che trasmettono al visitatore l’atmosfera genuina di un tempo che qui è ancora segnato dai ritmi della tradizione contadina.
eventi&co.
A PERUGIA DAL 16 AL 25 OTTOBRE 2009, LA SEDICESIMA EDIZIONE DI EUROCHOCOLATE INVITA A GUSTARE IL CIOCCOLATO IN TOTALE LIBERTA’
Un martello e un righello di moderno design i protagonisti della kermesse che durerà un giorno in più. Ancora più ricca la proposta di appuntamenti divertenti e di approfondimento.
Rompete le righe!Si rinnova il tradizionale appuntamento di ottobre con Eurochocolate, l'evento più dolce dell'anno patrocinato dal Comune di Perugia, Provincia di Perugia e C.C.I.A.A. di Perugia che quest'anno vede il coinvolgimento di Škoda in qualità di Main Sponsor.
http://www.eurochocolate.com/it/perugia2009/home.html
Un martello e un righello di moderno design i protagonisti della kermesse che durerà un giorno in più. Ancora più ricca la proposta di appuntamenti divertenti e di approfondimento.
Rompete le righe!Si rinnova il tradizionale appuntamento di ottobre con Eurochocolate, l'evento più dolce dell'anno patrocinato dal Comune di Perugia, Provincia di Perugia e C.C.I.A.A. di Perugia che quest'anno vede il coinvolgimento di Škoda in qualità di Main Sponsor.
http://www.eurochocolate.com/it/perugia2009/home.html
vini&co.
falerno del massiccio
In antichità il Falerno era tra i vini più noti, apprezzati e costosi. Qualcuno lo ha definito, a ragione, il primo vino a denominazione di origine dell'enologia mondiale. Infatti gli antichi romani chiudevano le anfore di Falerno con tappi muniti di targhette (pittacium), per garantirne origine e annata. Anfore di Falerno sono state ritrovate un pò ovunque dal momento che questo vino faceva parte delle provviste dell'esercito romano. Era, poi, il vino offerto da Cesare per celebrare le vittorie ed il vino offerto da Cleopatra allo stesso Cesare, un vino richiesto e venduto in tutto il mondo (di allora...): da Alessandria di Egitto a Cartagine, dalla Bretagna alla Spagna.
Il mito racconta che il dio Bacco in persona ricompensò l'umanità (nella persona di Falerno, il generoso pastore che l'aveva accolto ed ospitato sulle pendici del Massico, pur essendosi a lui presentato sotto mentite spoglie) trasformando tutto il declivio del monte Massico in vigneti lussuregianti. Il Falerno doveva essere un vino di strepitoso sapore, per questo cantato dai poeti e bevuto dagli intenditori. Ce lo confermano le tracce che i numerosi scavi archeologici ce ne hanno restituito e soprattutto gli scritti con i quali è possibile ripercorrerne la sua storia di vino apprezzato e celebrato fin dall'antichità.
Il colore da rosso rubino intenso, tende al granato con l'invecchiamento, il profumo è caratteristico ed intenso, al palato il sapore è asciutto, caldo, robusto ed armonico. Si accompagna preferenzialmente alle carni rosse arrosto ed alla cacciagione, oppure a stracotti fatti con lo stesso vino e formaggi piccanti. Tradizionale l'abbinamento con l'agnello con strutto e pepe. Il Bianco, invece, (11°) ha come base varietale la Falanghina in purezza. Si caratterizza per il colore paglierino con riflessi verdognoli, l'odore vinoso e gradevole, il sapore asciutto e sapido. Accompagna tradizionalmente antipasti di mare, pesci al forno o alla griglia, primi piatti marinari come gli spaghetti alle vongole. Pare che proprio il nome Falerno derivi dalla deformazione del termine phalangium in phalerninum e che quindi il Falerno primigenio sia stato quello bianco.
In antichità il Falerno era tra i vini più noti, apprezzati e costosi. Qualcuno lo ha definito, a ragione, il primo vino a denominazione di origine dell'enologia mondiale. Infatti gli antichi romani chiudevano le anfore di Falerno con tappi muniti di targhette (pittacium), per garantirne origine e annata. Anfore di Falerno sono state ritrovate un pò ovunque dal momento che questo vino faceva parte delle provviste dell'esercito romano. Era, poi, il vino offerto da Cesare per celebrare le vittorie ed il vino offerto da Cleopatra allo stesso Cesare, un vino richiesto e venduto in tutto il mondo (di allora...): da Alessandria di Egitto a Cartagine, dalla Bretagna alla Spagna.
Il mito racconta che il dio Bacco in persona ricompensò l'umanità (nella persona di Falerno, il generoso pastore che l'aveva accolto ed ospitato sulle pendici del Massico, pur essendosi a lui presentato sotto mentite spoglie) trasformando tutto il declivio del monte Massico in vigneti lussuregianti. Il Falerno doveva essere un vino di strepitoso sapore, per questo cantato dai poeti e bevuto dagli intenditori. Ce lo confermano le tracce che i numerosi scavi archeologici ce ne hanno restituito e soprattutto gli scritti con i quali è possibile ripercorrerne la sua storia di vino apprezzato e celebrato fin dall'antichità.
Il colore da rosso rubino intenso, tende al granato con l'invecchiamento, il profumo è caratteristico ed intenso, al palato il sapore è asciutto, caldo, robusto ed armonico. Si accompagna preferenzialmente alle carni rosse arrosto ed alla cacciagione, oppure a stracotti fatti con lo stesso vino e formaggi piccanti. Tradizionale l'abbinamento con l'agnello con strutto e pepe. Il Bianco, invece, (11°) ha come base varietale la Falanghina in purezza. Si caratterizza per il colore paglierino con riflessi verdognoli, l'odore vinoso e gradevole, il sapore asciutto e sapido. Accompagna tradizionalmente antipasti di mare, pesci al forno o alla griglia, primi piatti marinari come gli spaghetti alle vongole. Pare che proprio il nome Falerno derivi dalla deformazione del termine phalangium in phalerninum e che quindi il Falerno primigenio sia stato quello bianco.
vini&co.
abbuoto
Vitigno a bacca nera di origini remote, dal quale si produceva con molta probabilità il famoso Cécubo, più volte decantato da Orazio. Secondo quanto citato dal Drao (1934), veniva coltivato nella zona pedemontana e collinare del comune di Fondi (FR). E' stato descritto come vitigno italiano anche dal Viala e dal Vermorel (1909).
Ha foglia leggermente grande, pentagonale, pentalobata; grappolo medio-grande, di forma cilindrico-conica, a volte con una o due ali; acino medio-grande, di forma sub-rotonda, buccia spessa e pruinosa, di colore nero violaceo. L'acino si stacca con facilità dal suo pedicello. Predilige forme di allevamento di media espansione e potatura corta.
Vino rosso corposo e profumato. Questo vino sposa benissimo la salsiccia di Monte San Biagio.
Vitigno a bacca nera di origini remote, dal quale si produceva con molta probabilità il famoso Cécubo, più volte decantato da Orazio. Secondo quanto citato dal Drao (1934), veniva coltivato nella zona pedemontana e collinare del comune di Fondi (FR). E' stato descritto come vitigno italiano anche dal Viala e dal Vermorel (1909).
Ha foglia leggermente grande, pentagonale, pentalobata; grappolo medio-grande, di forma cilindrico-conica, a volte con una o due ali; acino medio-grande, di forma sub-rotonda, buccia spessa e pruinosa, di colore nero violaceo. L'acino si stacca con facilità dal suo pedicello. Predilige forme di allevamento di media espansione e potatura corta.
Vino rosso corposo e profumato. Questo vino sposa benissimo la salsiccia di Monte San Biagio.
vini&co.
aleatico
Uva rossa semiaromatica, in via di estinzione, introdotta probabilmente dai Greci in tempi remoti. Può essere considerata una mutazione del Moscato. Il corrispondente vitigno greco, allevato a Creta, è di sapore neutro. Il nome potrebbe derivare da "luglio" (iouliatico in greco), mese in cui matura. I sinonimi più usati sono: Aleatico di Portoferraio, Aleatico nero della Toscana e di Firenze, Aleatico gentile, Aliatico, Leatico, Liatico, Occhio di Pernice, Lacrima Christi, Uva dei Gesuiti. Fornisce vini di buona qualità in Toscana (Isola d'Elba), Lazio e Puglia. La varietà è coltivata anche in Corsica e nelle repubbliche dell'Asia Centrale dell'ex Unione Sovietica (Kazakistan, Uzbekistan).
Solitamente va degustato a pasticceria secca in particolare dolcetti alle mandorle e crostate; ha colore rosso granato con riflessi violacei, profumo finemente aromatico e caratteristico, sapore di frutto fresco, morbido, vellutato, dolce con gradazione alcolica minima di 12 gradi. Il Liquoroso si adatta anche a preparazioni dolci di crema e la sua gradazione alcolica non può essere inferiore ai 17,5 gradi e un invecchiamento di almeno sei mesi mentre il Liquoroso Dolce di almeno due anni.
Uva rossa semiaromatica, in via di estinzione, introdotta probabilmente dai Greci in tempi remoti. Può essere considerata una mutazione del Moscato. Il corrispondente vitigno greco, allevato a Creta, è di sapore neutro. Il nome potrebbe derivare da "luglio" (iouliatico in greco), mese in cui matura. I sinonimi più usati sono: Aleatico di Portoferraio, Aleatico nero della Toscana e di Firenze, Aleatico gentile, Aliatico, Leatico, Liatico, Occhio di Pernice, Lacrima Christi, Uva dei Gesuiti. Fornisce vini di buona qualità in Toscana (Isola d'Elba), Lazio e Puglia. La varietà è coltivata anche in Corsica e nelle repubbliche dell'Asia Centrale dell'ex Unione Sovietica (Kazakistan, Uzbekistan).
Solitamente va degustato a pasticceria secca in particolare dolcetti alle mandorle e crostate; ha colore rosso granato con riflessi violacei, profumo finemente aromatico e caratteristico, sapore di frutto fresco, morbido, vellutato, dolce con gradazione alcolica minima di 12 gradi. Il Liquoroso si adatta anche a preparazioni dolci di crema e la sua gradazione alcolica non può essere inferiore ai 17,5 gradi e un invecchiamento di almeno sei mesi mentre il Liquoroso Dolce di almeno due anni.
formaggi&co.
formaggio alla birra(frumage baladin)
Formaggio a latte crudo e pasta molle.sostenuta,
con birra artigianale italiana e malti d'orzo tostati.
La sua unicità è dovuta al metodo Kinara e alla lavorazione impiegata, brevetto esclusivo delle Fattorie Fiandino.
Ricco nei profumi e nel gusto presenta piacevoli e ricercate note di cacao e di caffè. Si consiglia di degustarlo a temperatura ambiente e di assaggiare anche la crosta;sarà una piacevole e gustosa sorpresa.
Per la prima volta la birra entra veramente nel ciclo di produzione di un formaggio, miscelandosi con il latte fresco e aromatizzandolo.
Ma noi mastri casari delle Fattorie Fiandino non ci siamo accontentati di questo risultato, seppur ragguardevole, ma abbiamo creato una miscela di differenti e pregiati malti d’orzo tostati della Baladin. Dopo un lavoro di sapiente dosatura abbiamo aggiunto al latte e alla birra la miscela creata.
Dopo la salagione una nuova miscela di malti d’orzo viene imbevuta di birra Baladin e durante la fase di affinatura il Frumage Baladin viene conciato su tutta la superficie esterna. Il risultato è la creazione di un formaggio unico e un trionfo di sensazioni gustative che si manifestano lentamente e lungamente in bocca, creando piacevolissimi retrogusti di biscotto, caramello e cacao.
Ingredienti: latte crudo, sale marino integrale delle saline Culcasi (TP) (presidio Slow Food), caglio vegetale (Cynara Cardunculus), birra artigianale Baladin, malto d'orzo.
Formaggio a latte crudo e pasta molle.sostenuta,
con birra artigianale italiana e malti d'orzo tostati.
La sua unicità è dovuta al metodo Kinara e alla lavorazione impiegata, brevetto esclusivo delle Fattorie Fiandino.
Ricco nei profumi e nel gusto presenta piacevoli e ricercate note di cacao e di caffè. Si consiglia di degustarlo a temperatura ambiente e di assaggiare anche la crosta;sarà una piacevole e gustosa sorpresa.
Per la prima volta la birra entra veramente nel ciclo di produzione di un formaggio, miscelandosi con il latte fresco e aromatizzandolo.
Ma noi mastri casari delle Fattorie Fiandino non ci siamo accontentati di questo risultato, seppur ragguardevole, ma abbiamo creato una miscela di differenti e pregiati malti d’orzo tostati della Baladin. Dopo un lavoro di sapiente dosatura abbiamo aggiunto al latte e alla birra la miscela creata.
Dopo la salagione una nuova miscela di malti d’orzo viene imbevuta di birra Baladin e durante la fase di affinatura il Frumage Baladin viene conciato su tutta la superficie esterna. Il risultato è la creazione di un formaggio unico e un trionfo di sensazioni gustative che si manifestano lentamente e lungamente in bocca, creando piacevolissimi retrogusti di biscotto, caramello e cacao.
Ingredienti: latte crudo, sale marino integrale delle saline Culcasi (TP) (presidio Slow Food), caglio vegetale (Cynara Cardunculus), birra artigianale Baladin, malto d'orzo.
mercoledì 21 ottobre 2009
vini&co.
il cesanese
Il "Cesanese" e' un vitigno rosso tra i piu' importanti del Lazio che da' il nome al vino omonimo; fino a circa sessanta anni fa, il territorio di coltura di questo vitigno era molto esteso nella regione, soprattuto nell'area dei castelli romani.Il Cesanese da' origine ad un vino rosso rubino, alcolico, con profumo caratteristico e tipico che ricorda l'ambiente di orgine: vellutato, alquanto tannico, morbido e pastoso, sopporta bene un moderato invecchiamento in botte di rovere acquisendo notevole pregio. Sia al profumo che al sapore si avverte una delicatissima e complessa nota di bosco che gli esperti individuano agevolmente come di mora e mirtillo.Il vino Cesanese puo' essere ottenuto dolce; in tal caso e' un ottimo vino da dessert, ma anche da pasto (soprattutto se accoppiato a piatti agresti) in versione tranquilla, vivace, frizzante e spumante. Il Cesanese dolce vede fortemente accentuate le sue qualita' organolettiche, purche' sia consumato entro la primavera successiva alla sua produzione.
Con il termine Cesanese, si intende "proveniente da Cesano" che é una località vicino Roma. Trattasi di un vitigno sicuramente importante per la produzione vitivinicola del Lazio. Gli studiosi ipotizzano che questo vitigno appartenga al gruppo delle "Alveoli" citate da Plinio come fonti di copiose produzioni di vino rosso nella zona di Ariccia.Fino ad alcuni anni fa presentava una notevole diffusione nell'area dei Castelli, unico vitigno rosso coltivato, era molto apprezzato dal consumatore locale. Una certa sensibilità alla peronospora e una accresciuta tendenza del mercato verso i vini bianchi ne ha ridotto la presenza sul territorio. Il vitigno Cesanese è comunque presente in ben 49 vini laziali.Possiamo distinguere e citare due diverse tipologie di vitigni identificabili come Cesanese:il Cesanese comune e una sua sotto varietà che prende il nome di Cesanese di Affile molto diffuso nel territorio di Piglio, Olevano Romano e di Affile.
Se ne ricava un vino rosso rubino dal sapore leggermente abboccato, tannico, pastoso. Vinificato quasi esclusivamente per assemblaggi con altri vini.
Il "Cesanese" e' un vitigno rosso tra i piu' importanti del Lazio che da' il nome al vino omonimo; fino a circa sessanta anni fa, il territorio di coltura di questo vitigno era molto esteso nella regione, soprattuto nell'area dei castelli romani.Il Cesanese da' origine ad un vino rosso rubino, alcolico, con profumo caratteristico e tipico che ricorda l'ambiente di orgine: vellutato, alquanto tannico, morbido e pastoso, sopporta bene un moderato invecchiamento in botte di rovere acquisendo notevole pregio. Sia al profumo che al sapore si avverte una delicatissima e complessa nota di bosco che gli esperti individuano agevolmente come di mora e mirtillo.Il vino Cesanese puo' essere ottenuto dolce; in tal caso e' un ottimo vino da dessert, ma anche da pasto (soprattutto se accoppiato a piatti agresti) in versione tranquilla, vivace, frizzante e spumante. Il Cesanese dolce vede fortemente accentuate le sue qualita' organolettiche, purche' sia consumato entro la primavera successiva alla sua produzione.
Con il termine Cesanese, si intende "proveniente da Cesano" che é una località vicino Roma. Trattasi di un vitigno sicuramente importante per la produzione vitivinicola del Lazio. Gli studiosi ipotizzano che questo vitigno appartenga al gruppo delle "Alveoli" citate da Plinio come fonti di copiose produzioni di vino rosso nella zona di Ariccia.Fino ad alcuni anni fa presentava una notevole diffusione nell'area dei Castelli, unico vitigno rosso coltivato, era molto apprezzato dal consumatore locale. Una certa sensibilità alla peronospora e una accresciuta tendenza del mercato verso i vini bianchi ne ha ridotto la presenza sul territorio. Il vitigno Cesanese è comunque presente in ben 49 vini laziali.Possiamo distinguere e citare due diverse tipologie di vitigni identificabili come Cesanese:il Cesanese comune e una sua sotto varietà che prende il nome di Cesanese di Affile molto diffuso nel territorio di Piglio, Olevano Romano e di Affile.
Se ne ricava un vino rosso rubino dal sapore leggermente abboccato, tannico, pastoso. Vinificato quasi esclusivamente per assemblaggi con altri vini.
vini&co.
trebbiano giallo
Antico vitigno romano, già citato da Plinio nella 'Naturalis Historia' e conosciuto anche con altri sinonimi quali Greco (a Velletri, Cori e Zagarolo), Trebbiano dei Castelli (nei dintorni di Nettuno) e ancora Greco Giallo o Rossetto in altre zone. La coltivazione è concentrata in prevalenza nella zona dei Castelli Romani. Il vino che se ne ricava è lievemente amarognolo e amabile.
Antico vitigno romano, già citato da Plinio nella 'Naturalis Historia' e conosciuto anche con altri sinonimi quali Greco (a Velletri, Cori e Zagarolo), Trebbiano dei Castelli (nei dintorni di Nettuno) e ancora Greco Giallo o Rossetto in altre zone. La coltivazione è concentrata in prevalenza nella zona dei Castelli Romani. Il vino che se ne ricava è lievemente amarognolo e amabile.
vini&co.
moscato di Terracina
La coltivazione del moscato può essere fatta risalire a Terracina nella prima metà del 1600,limitatamente a pochi ettari,altrimenti inutilizzati,viene destinata alla produzione del vino.
Man mano che vengono riconosciuti i pregi dell'uva per il consumo diretto,la coltura si estese e,nella prima metà del secolo scorso,raggiunse i 1400 ettari di estensione.Ben 600 ettari a vigneto si trovano nella Vallae di S.Silviano,su terreni argillo-sabbiosi,ma ancor più estesi sono i terreni coltivati a ridosso della spiaggia di ponente,fino al circeo,e quelli sulla spiaggia di levante,fino al lago di fondi.
Origina dal bacino medio-orientale del Mediterraneo. Vettore della sua diffusione nelle regioni italiane meridionali furono i coloni greci, che portarono con loro i semi o i tralci per poterlo coltivare nelle colonie della Magna Grecia.
La varietà bianca è la più pregiata. Le uve venivano già citate dai romani come Apicae (da Catone) o Apianae (da Columella e Plinio). Il suo nome deriva da muscum (muschio) a causa del profumo intenso e del suo dolce aroma. In tempi antichi si otteneva un vino dolce facendo appassire le uve.
La diffusione al nord avvenne principalmente nel medioevo grazie ai Veneziani, che con i loro commerci con le isole del Mediterraneo lo importarono in tutto il nord Europa.
La coltivazione del vitigno si diffuse velocemente grazie al volere delle classi agiate, in quanto il viticoltore era spesso recalcitrante alla sua coltivazione, per la difficoltà di ottenere il vino passito.
Colore e brillantezza magnifici, al naso è un trionfo aromatico, lavanda, agrumi canditi, albicocca, al palato un equilibrio perfetto tra acidità e note aromatiche, con una notevole lunghezza.
Da abbinare a piatti di mare, noi l’abbiamo perfettamente apprezzato su un ottimo piatto di linguine al granchio pazzo e su dei medaglioni di rana pescatrice con limone e salvia.
La coltivazione del moscato può essere fatta risalire a Terracina nella prima metà del 1600,limitatamente a pochi ettari,altrimenti inutilizzati,viene destinata alla produzione del vino.
Man mano che vengono riconosciuti i pregi dell'uva per il consumo diretto,la coltura si estese e,nella prima metà del secolo scorso,raggiunse i 1400 ettari di estensione.Ben 600 ettari a vigneto si trovano nella Vallae di S.Silviano,su terreni argillo-sabbiosi,ma ancor più estesi sono i terreni coltivati a ridosso della spiaggia di ponente,fino al circeo,e quelli sulla spiaggia di levante,fino al lago di fondi.
Origina dal bacino medio-orientale del Mediterraneo. Vettore della sua diffusione nelle regioni italiane meridionali furono i coloni greci, che portarono con loro i semi o i tralci per poterlo coltivare nelle colonie della Magna Grecia.
La varietà bianca è la più pregiata. Le uve venivano già citate dai romani come Apicae (da Catone) o Apianae (da Columella e Plinio). Il suo nome deriva da muscum (muschio) a causa del profumo intenso e del suo dolce aroma. In tempi antichi si otteneva un vino dolce facendo appassire le uve.
La diffusione al nord avvenne principalmente nel medioevo grazie ai Veneziani, che con i loro commerci con le isole del Mediterraneo lo importarono in tutto il nord Europa.
La coltivazione del vitigno si diffuse velocemente grazie al volere delle classi agiate, in quanto il viticoltore era spesso recalcitrante alla sua coltivazione, per la difficoltà di ottenere il vino passito.
Colore e brillantezza magnifici, al naso è un trionfo aromatico, lavanda, agrumi canditi, albicocca, al palato un equilibrio perfetto tra acidità e note aromatiche, con una notevole lunghezza.
Da abbinare a piatti di mare, noi l’abbiamo perfettamente apprezzato su un ottimo piatto di linguine al granchio pazzo e su dei medaglioni di rana pescatrice con limone e salvia.
vini&co.
malvasia bianca di candia
Originaria come altre Malvasie del Peloponneso, si è diffusa nel Lazio e Campania e, seppure limitatamente, un po’ ovunque nell’Italia centro-meridionale.La varietà è relativamente omogenea, i caratteri differenziali che riguardano la fertilità e la forma del grappolo spesso dipendono dagli ambienti diversi in cui si coltiva. Germoglio ad apice espanso, lanugginoso, verde chiaro con sfumature rosa, foglioline apicali piegate, di colore verde-bronzato, lanugginose sulla pagina inferiore. Foglia grande, pentagonale, tri-quinquelobata, lembo leggermente ondulato, liscio, di colore verde carico, quasi glabro. Grappolo grande, piramidale, alato, semispargolo; acino medio, rotondo, di colore giallo dorato, buccia sottile e consistente, poco pruinosa; polpa sciolta, di sapore semplice o leggermente aromatico, dolce.
Dà un vino di colore giallo paglierino carico, leggermente profumato, sapido, amarognolo; spesso viene vinificato assieme ad altre uve perché solo nelle zone classiche di coltura può dare un prodotto armonico, caratteristico ed abbastanza fine.
Si sposa in maniera perfetta con antipasti magri, culatello, piatti a base di pesce, minestre.
Originaria come altre Malvasie del Peloponneso, si è diffusa nel Lazio e Campania e, seppure limitatamente, un po’ ovunque nell’Italia centro-meridionale.La varietà è relativamente omogenea, i caratteri differenziali che riguardano la fertilità e la forma del grappolo spesso dipendono dagli ambienti diversi in cui si coltiva. Germoglio ad apice espanso, lanugginoso, verde chiaro con sfumature rosa, foglioline apicali piegate, di colore verde-bronzato, lanugginose sulla pagina inferiore. Foglia grande, pentagonale, tri-quinquelobata, lembo leggermente ondulato, liscio, di colore verde carico, quasi glabro. Grappolo grande, piramidale, alato, semispargolo; acino medio, rotondo, di colore giallo dorato, buccia sottile e consistente, poco pruinosa; polpa sciolta, di sapore semplice o leggermente aromatico, dolce.
Dà un vino di colore giallo paglierino carico, leggermente profumato, sapido, amarognolo; spesso viene vinificato assieme ad altre uve perché solo nelle zone classiche di coltura può dare un prodotto armonico, caratteristico ed abbastanza fine.
Si sposa in maniera perfetta con antipasti magri, culatello, piatti a base di pesce, minestre.
vini&co.
il bellone
Uva bianca, caratteristica del Lazio, soprattutto nella provincia di Roma. Ha molti sinonimi fra cui Cacchione, Pampanaro, Bellobuono, Uva Pane, Zinna vacca, Arciprete, Pacioccone. L'Uva pantastica citata da Plinio, secondo il Bacci (1596) potrebbe essere proprio il Bellone. Nel Bollettino Ampelografico del 1881 era descritta come vitigno con grappoli dalle proportzioni maggiori ma dai caratteri analoghi ai Belli, gruppo di vitigni diffusi intorno a Roma. Osservazioni confermate anche da Mangarino nel 1888 e Mancini nel 1893.
Il bellone è un vitigno a bacca bianca e matura generalmente nella seconda metà di ottobre,ha un elevata vigoria e una produttività abbondante,viene utilizzato in molte doc laziali ed è stato inserito ultimamente nella doc nettuno come monovarietale.La pianta predilige terreni vulcanici.ricavandone un vino delicato,leggermente amarognolo e pronto al consumo.
Questo vino si presenta con un colore giallo dorato intenso e sfumature giallo dorato, molto trasparente. Al naso esprime aromi puliti che si aprono con note di susina e mela seguite da aromi di biancospino, mandorla e pompelmo. In bocca ha buona corrispondenza con il naso, un attacco fresco e comunque equilibrato, buon corpo. Il finale è abbastanza persistente con ricordi di susina e mandorla.
L'abbinamento idelae è con pesce stufato, carne bianca saltata.
Uva bianca, caratteristica del Lazio, soprattutto nella provincia di Roma. Ha molti sinonimi fra cui Cacchione, Pampanaro, Bellobuono, Uva Pane, Zinna vacca, Arciprete, Pacioccone. L'Uva pantastica citata da Plinio, secondo il Bacci (1596) potrebbe essere proprio il Bellone. Nel Bollettino Ampelografico del 1881 era descritta come vitigno con grappoli dalle proportzioni maggiori ma dai caratteri analoghi ai Belli, gruppo di vitigni diffusi intorno a Roma. Osservazioni confermate anche da Mangarino nel 1888 e Mancini nel 1893.
Il bellone è un vitigno a bacca bianca e matura generalmente nella seconda metà di ottobre,ha un elevata vigoria e una produttività abbondante,viene utilizzato in molte doc laziali ed è stato inserito ultimamente nella doc nettuno come monovarietale.La pianta predilige terreni vulcanici.ricavandone un vino delicato,leggermente amarognolo e pronto al consumo.
Questo vino si presenta con un colore giallo dorato intenso e sfumature giallo dorato, molto trasparente. Al naso esprime aromi puliti che si aprono con note di susina e mela seguite da aromi di biancospino, mandorla e pompelmo. In bocca ha buona corrispondenza con il naso, un attacco fresco e comunque equilibrato, buon corpo. Il finale è abbastanza persistente con ricordi di susina e mandorla.
L'abbinamento idelae è con pesce stufato, carne bianca saltata.
martedì 20 ottobre 2009
vini&co.
la malvasia nera
Il termine Malvasia deriva da una variazione contratta di Monembasia, una roccaforte bizantina, abbarbicata sulle rocce di un promontorio posto a sud del Peloponneso. La roccaforte era collegata con la terraferma da un'unica strada che portava all'entrata principale della città e il suo nome, Monembasia, alla lettera significa "un unico punto di ingresso".I Veneziani vi approdarono nel 1248 e stabilirono un accordo commerciale con la gente del posto, che permise loro di vendere i vini dolci che si producevano nella zona in tutta Europa con il nome di Monemvasia. Gli stessi Veneziani portarono poi il vitigno Monemvasia prima a Creta e più tardi in Italia, e incoraggiarono la sua coltivazione in tutto il bacino Mediterraneo. Il vino fatto con questa varietà era un prodotto estremamente popolare, tanto che Venezia pullulava di osterie, chiamate Malvase, consacrate al consumo di questo vino.
Le Malvasie iscritte al Registro Nazionale delle Varietà sono 17, coltivate su una superficie di circa 30.000 ettari: Malvasia, Malvasia Bianca, Malvasia Bianca di Basilicata, Malvasia Bianca di Candia, Malvasia Bianca lunga, Malvasia del Lazio, Malvasia di Candia aromatica, Malvasia di Casorzo, Malvasia di Lipari, Malvasia di Sardegna, Malvasia di Schierano, Malvasia istriana, Malvasia Nera lunga, Malvasia Nera di Basilicata, Malvasia Nera di Brindisi, Malvasia Nera di Lecce e Malvasia Rosa.
Esse si differenziano, oltre che per il colore della bacca, per l'indicazione geografica e per la presenza o meno di aromaticità.I molti vitigni denominati Malvasia hanno spesso in comune soltanto il nome, derivato, molto probabilmente, dal porto greco di Monemvasia, dal quale partivano ricercati vini dolci che venivano esportati in tutto il Mediterraneo. Si deve ai veneziani l'uso di tale appellativo per indicare, in un primo momento, questi vini dolci provenienti dalle zone orientali del Mediterraneo e, successivamente, anche le botteghe in Venezia nelle quali si consumava questa bevanda.I veneziani ebbero un rapporto di vero amore con questo vino: basti pensare che nel tardo Medioevo il consumo medio annuo pro capite di vino in città era di ben 400 litri!Le Malvasie non erano solo importate dal bacino greco: nel 1500-1600 erano coltivate in molte regioni italiane.
in genere è vinificato con il Negramaro, al quale dona la giusta alcolicità, sapidità e corpo. Si ottiene un vino corposo e alcolico, dall'intenso colore rosso rubino, dal profumo gradevole e dal sapore armonico e vellutato.
L'abbinamento perfetto è con le carni rosse della tradizione pugliese,formaggi tipici di buano struttura.
Il termine Malvasia deriva da una variazione contratta di Monembasia, una roccaforte bizantina, abbarbicata sulle rocce di un promontorio posto a sud del Peloponneso. La roccaforte era collegata con la terraferma da un'unica strada che portava all'entrata principale della città e il suo nome, Monembasia, alla lettera significa "un unico punto di ingresso".I Veneziani vi approdarono nel 1248 e stabilirono un accordo commerciale con la gente del posto, che permise loro di vendere i vini dolci che si producevano nella zona in tutta Europa con il nome di Monemvasia. Gli stessi Veneziani portarono poi il vitigno Monemvasia prima a Creta e più tardi in Italia, e incoraggiarono la sua coltivazione in tutto il bacino Mediterraneo. Il vino fatto con questa varietà era un prodotto estremamente popolare, tanto che Venezia pullulava di osterie, chiamate Malvase, consacrate al consumo di questo vino.
Le Malvasie iscritte al Registro Nazionale delle Varietà sono 17, coltivate su una superficie di circa 30.000 ettari: Malvasia, Malvasia Bianca, Malvasia Bianca di Basilicata, Malvasia Bianca di Candia, Malvasia Bianca lunga, Malvasia del Lazio, Malvasia di Candia aromatica, Malvasia di Casorzo, Malvasia di Lipari, Malvasia di Sardegna, Malvasia di Schierano, Malvasia istriana, Malvasia Nera lunga, Malvasia Nera di Basilicata, Malvasia Nera di Brindisi, Malvasia Nera di Lecce e Malvasia Rosa.
Esse si differenziano, oltre che per il colore della bacca, per l'indicazione geografica e per la presenza o meno di aromaticità.I molti vitigni denominati Malvasia hanno spesso in comune soltanto il nome, derivato, molto probabilmente, dal porto greco di Monemvasia, dal quale partivano ricercati vini dolci che venivano esportati in tutto il Mediterraneo. Si deve ai veneziani l'uso di tale appellativo per indicare, in un primo momento, questi vini dolci provenienti dalle zone orientali del Mediterraneo e, successivamente, anche le botteghe in Venezia nelle quali si consumava questa bevanda.I veneziani ebbero un rapporto di vero amore con questo vino: basti pensare che nel tardo Medioevo il consumo medio annuo pro capite di vino in città era di ben 400 litri!Le Malvasie non erano solo importate dal bacino greco: nel 1500-1600 erano coltivate in molte regioni italiane.
in genere è vinificato con il Negramaro, al quale dona la giusta alcolicità, sapidità e corpo. Si ottiene un vino corposo e alcolico, dall'intenso colore rosso rubino, dal profumo gradevole e dal sapore armonico e vellutato.
L'abbinamento perfetto è con le carni rosse della tradizione pugliese,formaggi tipici di buano struttura.
vini&co.
bombino nero
Coltivato da molto tempo, questo vitigno ha origini ignote; gli agricoltori lo chiamano spesso Bambino, per la forma particolare del grappolo che ne richiama l'aspetto. E' conosciuto anche come Buonvino, soprannome di facile interpretazione, deriva infatti dalla copiosa produzione e dall'elevata resa in mosto. Viene coltivato prevalentemente in Puglia, nelle zone di Lizzano e Castel del Monte.
Ha foglia media, quinquelobata; grappolo grosso, di forma composta o con due ali, compatto; acino grosso, di forma sferoidale, con buccia pruinosa, spessa e consistente, di colore blu. Si adatta bene a qualsiasi condizione pedo-climatica e non necessita di colture particolari.
Gli abbinamenti ideali sono con salumi dolci, minestre leggere, spaghetti al pomodoro, risotti a base di carne, orecchiette con cime di rape, carni bianche bollite o in umidi leggeri, pesce a carne rossa, formaggi non molto stagionati.
Coltivato da molto tempo, questo vitigno ha origini ignote; gli agricoltori lo chiamano spesso Bambino, per la forma particolare del grappolo che ne richiama l'aspetto. E' conosciuto anche come Buonvino, soprannome di facile interpretazione, deriva infatti dalla copiosa produzione e dall'elevata resa in mosto. Viene coltivato prevalentemente in Puglia, nelle zone di Lizzano e Castel del Monte.
Ha foglia media, quinquelobata; grappolo grosso, di forma composta o con due ali, compatto; acino grosso, di forma sferoidale, con buccia pruinosa, spessa e consistente, di colore blu. Si adatta bene a qualsiasi condizione pedo-climatica e non necessita di colture particolari.
Gli abbinamenti ideali sono con salumi dolci, minestre leggere, spaghetti al pomodoro, risotti a base di carne, orecchiette con cime di rape, carni bianche bollite o in umidi leggeri, pesce a carne rossa, formaggi non molto stagionati.
vini&co.
bombino bianco
Coltivato da lungo tempo in Puglia, sembra sia originario della Spagna, anche se nessuna fonte lo accerta con sicurezza. In merito al suo nome, in bibliografia è riportato che esso deriverebbe dalla forma del grappolo che, secondo una visione alquanto fantastica, rassomiglia ad un bambino con le braccia distese. Da questo, appunto, il nome di Bammino, accezione dialettale dell'italiano Bambino, poi mutatosi in Bombino. Più verosimilmente, acclarata la provenienza spagnola, Bombino deriva da Bonvino, in quanto la lettera "v" in spagnolo si pronuncia come in italiano la lettera "b"; pertanto in spagnolo la parola "Bonvino" si pronuncia come in italiano "Bombino". Il termine Bombino sta quindi ad indicare "vino buono".
Quasi mai è vinificato in purezza, ma viene utilizzato in uvaggio per la produzione di rinomati vini bianchi. In Puglia, viene utilizzato per la produzione dei VQPRD San Severo, Cacc'è Mmitte di Lucera, Leverano, Castel del Monte, Locorotondo, Martina o Martina Franca e Gravina. È altresì inserito in diversi altri disciplinari di produzione di VQPRD del Centro e Sud Italia. Il vino presenta colore da giallo verdolino a paglierino dorato, sapore neutro, vellutato, armonico, asciutto. E' un vino fine da pasto, che si abbina bene con il pesce. Si presta per la produzione di "vermut".Importanza economica e distribuzione geograficaIl vitigno è presente in Puglia in maniera rilevante soprattutto nel Barese e nel Foggiano. E' iscritto fra le varietà idonee alla coltivazione in tutte le province pugliesi. È presente in altre regioni dell'Italia meridionale, come il Molise e l'Abruzzo.
L'abbinamento ideale è rappresentato dalla tipica cucina marinara pugliese come ad esempio antipasti di pesce,primi piatti delicati o secondi di pesce.Per quanto riguarda i formaggi pugliesi,ottimo con una caciottina fresca,caciocavallo,burrata,ricotta fresca e bocconcini.
Coltivato da lungo tempo in Puglia, sembra sia originario della Spagna, anche se nessuna fonte lo accerta con sicurezza. In merito al suo nome, in bibliografia è riportato che esso deriverebbe dalla forma del grappolo che, secondo una visione alquanto fantastica, rassomiglia ad un bambino con le braccia distese. Da questo, appunto, il nome di Bammino, accezione dialettale dell'italiano Bambino, poi mutatosi in Bombino. Più verosimilmente, acclarata la provenienza spagnola, Bombino deriva da Bonvino, in quanto la lettera "v" in spagnolo si pronuncia come in italiano la lettera "b"; pertanto in spagnolo la parola "Bonvino" si pronuncia come in italiano "Bombino". Il termine Bombino sta quindi ad indicare "vino buono".
Quasi mai è vinificato in purezza, ma viene utilizzato in uvaggio per la produzione di rinomati vini bianchi. In Puglia, viene utilizzato per la produzione dei VQPRD San Severo, Cacc'è Mmitte di Lucera, Leverano, Castel del Monte, Locorotondo, Martina o Martina Franca e Gravina. È altresì inserito in diversi altri disciplinari di produzione di VQPRD del Centro e Sud Italia. Il vino presenta colore da giallo verdolino a paglierino dorato, sapore neutro, vellutato, armonico, asciutto. E' un vino fine da pasto, che si abbina bene con il pesce. Si presta per la produzione di "vermut".Importanza economica e distribuzione geograficaIl vitigno è presente in Puglia in maniera rilevante soprattutto nel Barese e nel Foggiano. E' iscritto fra le varietà idonee alla coltivazione in tutte le province pugliesi. È presente in altre regioni dell'Italia meridionale, come il Molise e l'Abruzzo.
L'abbinamento ideale è rappresentato dalla tipica cucina marinara pugliese come ad esempio antipasti di pesce,primi piatti delicati o secondi di pesce.Per quanto riguarda i formaggi pugliesi,ottimo con una caciottina fresca,caciocavallo,burrata,ricotta fresca e bocconcini.
vini&co.
nero di troia
L'uva di Troia è un vitigno autoctono pugliese. Il nome lascia immaginare una sua provenienza dalla città di Troia, in provincia di Foggia, molto probabilmente fondata da coloni greci, anche se non si può non considerare l'ipotesi di una provenienza albanese dalla città di Cruja.Il vitigno, fra i più antichi e caratteristici della Puglia Centro-Settentrionale, potrebbe essere originario dell'Asia Minore (Troia) e giunto in Puglia durante la colonizzazione ellenica. Oppure il suo nome potrebbe derivare dal centro pugliese in provincia di Foggia (Troia) o ancora dalla città albanese di Cruja, vernacolizzato in Troia.
Il vitigno Nero Troia, contraddistinto dall’ elevato carattere tannico delle sue uve, si presta benissimo alla commistione con altri vitigni locali: dall’ integrazione del vitigno Nero di Troia con i vitigni Montepulciano e bombino bianco, nasce il famoso Cacc’e Mmitte di Lucera, un vino dal sapore deciso che si accompagna perfettamente ai piatti più saporiti della tradizione culinaria pugliese.Le uve Nero di Troia conferiscono al vino del Gargano un colore rosso rubino intenso e un profumo fruttato che ricorda le bacche selvatiche del Parco Nazionale del Gargano che incontrano l’ inebriante essenza di zagare sprigionata dalle piantagioni di agrumi che dominano le colture della zona.
Con l’Uva di Troia, nei pochi casi quando viene vinificato in purezza, si ottengono vini che si presentano di un rosso rubino intenso con profondi riflessi violacei e di ottima consistenza. L’olfatto è ricco di frutta rossa come le more, ciliegie, prugne e fichi fioroni, sentori di spezie come il pepe nero e accenni di chiodi di garofano. Al gusto è un vino secco, sostenuto da una buona dose di alcol, abbastanza morbido per la componente tannica presente ma non irruenta e fastidiosa, sapido e abbastanza fresco. Vino strutturato, abbastanza equilibrato e intenso, buona la persistenza grazie al ritorno fruttatato molto piacevole. Caratteristiche che possono portare i vini ottenuti con Uva di Troia anche ad affinamenti medio-lunghi.
In base alla tipologia e al tipo di affinamento, l’abbinamento va dai primi piatti sostanziosi come le lasagne al ragù o il pasticcio alla bolognese. Secondi piatti come le costine di agnello alla brace, formaggi semi stagionati, oppure abbinato a una faraona ripiena.
L'uva di Troia è un vitigno autoctono pugliese. Il nome lascia immaginare una sua provenienza dalla città di Troia, in provincia di Foggia, molto probabilmente fondata da coloni greci, anche se non si può non considerare l'ipotesi di una provenienza albanese dalla città di Cruja.Il vitigno, fra i più antichi e caratteristici della Puglia Centro-Settentrionale, potrebbe essere originario dell'Asia Minore (Troia) e giunto in Puglia durante la colonizzazione ellenica. Oppure il suo nome potrebbe derivare dal centro pugliese in provincia di Foggia (Troia) o ancora dalla città albanese di Cruja, vernacolizzato in Troia.
Il vitigno Nero Troia, contraddistinto dall’ elevato carattere tannico delle sue uve, si presta benissimo alla commistione con altri vitigni locali: dall’ integrazione del vitigno Nero di Troia con i vitigni Montepulciano e bombino bianco, nasce il famoso Cacc’e Mmitte di Lucera, un vino dal sapore deciso che si accompagna perfettamente ai piatti più saporiti della tradizione culinaria pugliese.Le uve Nero di Troia conferiscono al vino del Gargano un colore rosso rubino intenso e un profumo fruttato che ricorda le bacche selvatiche del Parco Nazionale del Gargano che incontrano l’ inebriante essenza di zagare sprigionata dalle piantagioni di agrumi che dominano le colture della zona.
Con l’Uva di Troia, nei pochi casi quando viene vinificato in purezza, si ottengono vini che si presentano di un rosso rubino intenso con profondi riflessi violacei e di ottima consistenza. L’olfatto è ricco di frutta rossa come le more, ciliegie, prugne e fichi fioroni, sentori di spezie come il pepe nero e accenni di chiodi di garofano. Al gusto è un vino secco, sostenuto da una buona dose di alcol, abbastanza morbido per la componente tannica presente ma non irruenta e fastidiosa, sapido e abbastanza fresco. Vino strutturato, abbastanza equilibrato e intenso, buona la persistenza grazie al ritorno fruttatato molto piacevole. Caratteristiche che possono portare i vini ottenuti con Uva di Troia anche ad affinamenti medio-lunghi.
In base alla tipologia e al tipo di affinamento, l’abbinamento va dai primi piatti sostanziosi come le lasagne al ragù o il pasticcio alla bolognese. Secondi piatti come le costine di agnello alla brace, formaggi semi stagionati, oppure abbinato a una faraona ripiena.
vini&co.
primitivo di manduria
Di origine incerta, la sua introduzione in Puglia è forse riconducibile alla colonizzazione fenicia o alla successiva ondata ellenica. E certo che alla fine del Settecento, la selezione del vitigno fatta dal Primicerio Don Francesco Filippo Indellicati, di Gioia del Colle, nell'ambito dei vecchi vigneti coltivati localmente (Musei G., 1913) portò all'utilizzazione e diffusione del vitigno Primitivo. È opportuno sottolineare che tale selezione fu comunque condotta nell'ambito dei 'vecchi vigneti' coltivati localmente; pertanto, qualunque fosse l'origine, il vitigno esisteva in zona da diverso tempo, essendo appunto presente in tali vigneti alla fine del Settecento.
La produzione è di elevata qualità, ma quantitativamente incostante. Questa varietà predilige terreni di medio impasto, argilloso-calcarei, profondi. Assicura i migliori risultati enologici con forme di allevamento a media e bassa espansione, con potatura ricca e corta (come nel caso dell'alberello pugliese a 4-5 speroni). Presenta femminelle fertili, che danno una seconda produzione più tardiva, pari al 20%-30% di quella principale. Mediamente resistente alla peronospora ed all'oidio, è poco resistente ai marciumi e alle brinate primaverili. È sensibile alla siccità ed alle alte temperature estive, che possono provocare avvizzimento e scottatura degli acini.
Alla vista è rosso, intenso, con sfumature violacee in gioventù che tendono ad attenuarsi con l’età, volgendo al granato,all’olfatto risulta ampio con una ricchezza di sensazioni complesse di frutti a bacca rossa,al gusto è secco, asciutto, caldo, sapido, di gran corpo e potenza, ma al contempo morbido e mai invadente con i suoi tannini nobili.
si abbina ad arrosti di carni rosse, grigliate di carni, pastasciutte al ragù, zuppe corpose e selvaggina, formaggi stagionati. Si beve in un tulipano panciuto alla temperatura di 18/22°.
Di origine incerta, la sua introduzione in Puglia è forse riconducibile alla colonizzazione fenicia o alla successiva ondata ellenica. E certo che alla fine del Settecento, la selezione del vitigno fatta dal Primicerio Don Francesco Filippo Indellicati, di Gioia del Colle, nell'ambito dei vecchi vigneti coltivati localmente (Musei G., 1913) portò all'utilizzazione e diffusione del vitigno Primitivo. È opportuno sottolineare che tale selezione fu comunque condotta nell'ambito dei 'vecchi vigneti' coltivati localmente; pertanto, qualunque fosse l'origine, il vitigno esisteva in zona da diverso tempo, essendo appunto presente in tali vigneti alla fine del Settecento.
La produzione è di elevata qualità, ma quantitativamente incostante. Questa varietà predilige terreni di medio impasto, argilloso-calcarei, profondi. Assicura i migliori risultati enologici con forme di allevamento a media e bassa espansione, con potatura ricca e corta (come nel caso dell'alberello pugliese a 4-5 speroni). Presenta femminelle fertili, che danno una seconda produzione più tardiva, pari al 20%-30% di quella principale. Mediamente resistente alla peronospora ed all'oidio, è poco resistente ai marciumi e alle brinate primaverili. È sensibile alla siccità ed alle alte temperature estive, che possono provocare avvizzimento e scottatura degli acini.
Alla vista è rosso, intenso, con sfumature violacee in gioventù che tendono ad attenuarsi con l’età, volgendo al granato,all’olfatto risulta ampio con una ricchezza di sensazioni complesse di frutti a bacca rossa,al gusto è secco, asciutto, caldo, sapido, di gran corpo e potenza, ma al contempo morbido e mai invadente con i suoi tannini nobili.
si abbina ad arrosti di carni rosse, grigliate di carni, pastasciutte al ragù, zuppe corpose e selvaggina, formaggi stagionati. Si beve in un tulipano panciuto alla temperatura di 18/22°.
vini&co.
negroamaro
Vitigno a bacca nera di origini incerte, forse introdotto dai greci nella zona Ionica. Il suo nome deriva dal termine dialettale "niuru maru", per il caratteristico colore nero dell'acino e il sapore ticamente amarognolo del vino che se ne ricava. E' molto diffuso in Puglia, in particolare nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto. E' anche detto negroamaro, ma ha molti altri sinonimi fra cui nicra amaro, abruzzese, uva cane, arbese, albese, nero leccese, jonico, mangiaverde.
Ha foglia grande, pentagonale, quinquelobata o trilobata; grappolo medio, di forma tronco-conica, corto e serrato, raramente con un'ala; acino medio-grande, obovoide, con buccia pruinosa, spessa e consistente, di colore nero-violaceo. Ha produzione abbondante e costante, predilige terreni calcareo-argillosi, ma si adatta bene anche ad altri tipi di terreni e a climi caldi e aridi. Viene allevato prevalentemente ad alberello e a tendone, con potatura lunga o corta.
Il vino è caratterizzato dal colore rosso-granato intenso, sapore rotondo, amarognolo e asciutto. Vinificato con la Malvasia Nera produce un ottimo vino rosato. II vitigno è presente in Puglia in maniera rilevante, con particolare diffusione nel salentino, ed è iscritto fra le varietà idonee alla coltivazione in tutte le province della regione. È la varietà più coltivata nelle province di Lecce e Brindisi e partecipa, in forma prevalente, alla produzione della maggior parte dei vini rossi e rosati DOC di queste due province. In Puglia viene utilizzato per la produzione di alcuni VQPRD.
Con lo stesso uvaggio si producono due tipologie, il rosso e il rosato Salice salentino DOC, dove esprime le sue doti migliori. Si presenta con un colore rosa chiaretto, l’olfatto è fine, fruttato, floreale e leggermente speziato, con sentori di lamponi, melograno, rosa e una sfumatura finale di cannella. Al gusto è secco, caldo, abbastanza morbido, abbastanza sapido con una buona struttura e un finale leggermente amarognolo.
Ottimo l’abbinamento di questo vino con formaggi come il cacioricotta e pecorino a pasta semidura, con i primi piatti come la zuppa di pesce, pepata di cozze, ciciri e tria e carni bianche. La versione Rosso Riserva, l’altra tipologia, con più di due anni di affinamento è l’ideale con agnello alla brace. Nei prossimi giorni pubblichiamo qualcuna di queste ricette, seguiteci.
Vitigno a bacca nera di origini incerte, forse introdotto dai greci nella zona Ionica. Il suo nome deriva dal termine dialettale "niuru maru", per il caratteristico colore nero dell'acino e il sapore ticamente amarognolo del vino che se ne ricava. E' molto diffuso in Puglia, in particolare nelle province di Lecce, Brindisi e Taranto. E' anche detto negroamaro, ma ha molti altri sinonimi fra cui nicra amaro, abruzzese, uva cane, arbese, albese, nero leccese, jonico, mangiaverde.
Ha foglia grande, pentagonale, quinquelobata o trilobata; grappolo medio, di forma tronco-conica, corto e serrato, raramente con un'ala; acino medio-grande, obovoide, con buccia pruinosa, spessa e consistente, di colore nero-violaceo. Ha produzione abbondante e costante, predilige terreni calcareo-argillosi, ma si adatta bene anche ad altri tipi di terreni e a climi caldi e aridi. Viene allevato prevalentemente ad alberello e a tendone, con potatura lunga o corta.
Il vino è caratterizzato dal colore rosso-granato intenso, sapore rotondo, amarognolo e asciutto. Vinificato con la Malvasia Nera produce un ottimo vino rosato. II vitigno è presente in Puglia in maniera rilevante, con particolare diffusione nel salentino, ed è iscritto fra le varietà idonee alla coltivazione in tutte le province della regione. È la varietà più coltivata nelle province di Lecce e Brindisi e partecipa, in forma prevalente, alla produzione della maggior parte dei vini rossi e rosati DOC di queste due province. In Puglia viene utilizzato per la produzione di alcuni VQPRD.
Con lo stesso uvaggio si producono due tipologie, il rosso e il rosato Salice salentino DOC, dove esprime le sue doti migliori. Si presenta con un colore rosa chiaretto, l’olfatto è fine, fruttato, floreale e leggermente speziato, con sentori di lamponi, melograno, rosa e una sfumatura finale di cannella. Al gusto è secco, caldo, abbastanza morbido, abbastanza sapido con una buona struttura e un finale leggermente amarognolo.
Ottimo l’abbinamento di questo vino con formaggi come il cacioricotta e pecorino a pasta semidura, con i primi piatti come la zuppa di pesce, pepata di cozze, ciciri e tria e carni bianche. La versione Rosso Riserva, l’altra tipologia, con più di due anni di affinamento è l’ideale con agnello alla brace. Nei prossimi giorni pubblichiamo qualcuna di queste ricette, seguiteci.
vini&co.
salice salentino
La denominazione di questo vino deriva dal comune omonimo, situato a nord di Lecce, zona di vigneti e uliveti, in cui sono sparse masserie e antiche torri di vedetta. Il Salice Salentino, rosso e rosato, viene prodotto per massima parte con le uve dei vitigni Negro Amaro e rappresenta, sin dal VI secolo a.C. un'antica produzione dell'area meridionale della Puglia. La Doc ricade nella zona jonico-salentina, coprendo le province di Brindisi e Lecce, un'area a secolare tradizione viticola. Il Salice Salentino Doc esiste nelle versioni Rosso, Rosato, Bianco, Pinot Bianco, Aleatico Dolce e Aleatico Liquoroso dolce.
Il Salice Salentino Bianco viene prodotto con uve Chardonnay (minimo al 70%) e presenta una gradazione alcolica minima di 11 gradi, anche per il tipo Frizzante. Il Pinot Bianco deve essere prodotto per l'85% dalle uve omonime, e per la restante parte con uve Chardonnay e Sauvignon e presenta una gradazione alcolica minima di 10,5 gradi. Il Rosso e il Rosato, in tutte le versioni, vengono ottenuti da Negroamaro, Malvasia Nera di Lecce e Malvasia Nera di Brindisi (2 anni in botti di legno per l'invecchiato). La gradazione alcolica è di 11,5 gradi. L'Aleatico infine deve essere prodotto con almeno l'85% di uve Aleatico e deve avere una gradazione minima di 14 gradi .
Il Salice Salentino Bianco, presenta un colore giallo paglierino chiaro, odore delicato e sentore di fruttato; il gusto è secco e fragrante; Il Rosso e il Rosato, in tutte le versioni, sono caratterizzati rispettivamente da un colore rosso rubino che tende al mattone con l'invecchiamento (2 anni in botti di legno), e rosato tendente al rubino; ferme restando le caratteristiche specifiche dei due vini indicate nel disciplinare di produzione, il profumo è vinoso, gradevole; il gusto è asciutto, di corpo, sapido, armonico. All'esame visivo le due versioni Salice Salentino Aleatico si presentano di colore rosso granata piuttosto intenso con riflessi violacei, e, ferme restando le caratteristiche specifiche dei due vini indicate nel disciplinare di produzione, il profumo è intenso e piuttosto persistente, fruttato ed etereo e il gusto è decisamente dolce, molto caldo, quasi alcolico, più che morbido, poco fresco, poco tannico e robusto di corpo. Il Pinot Bianco, infine, presenta colore giallo paglierino tenue, odore caratteristico, gradevolmente fruttato e sapore asciutto, vellutato, caratteristico.
Si tratta di un vino da pasto che nella tipologia Bianco viene servito con primi piatti di pasta e riso, verdure e pesce in calici ampi che si restringono verso l'alto a una temperatura di servizio di 10-12°C. Il Rosso si accompagna bene con preparazioni molto -strutturate e carni rosse. Va degustato in calici allungati ad una temperatura di 18°C. Il Rosato invece può essere abbinato a salumi piccanti, primi piatti con sughi leggeri, carni di maiale e agnello al forno o in umido, spezzatini di vitello con verdure, frittate campagnole, formaggi ovini freschi e si degusta in calici ampi e aperti a una temperatura di 12-14°C. Le versioni Dolci e Pinot Bianco si abbinano a dessert o a dolci tipici del periodo natalizio serviti in calici piccoli.
La denominazione di questo vino deriva dal comune omonimo, situato a nord di Lecce, zona di vigneti e uliveti, in cui sono sparse masserie e antiche torri di vedetta. Il Salice Salentino, rosso e rosato, viene prodotto per massima parte con le uve dei vitigni Negro Amaro e rappresenta, sin dal VI secolo a.C. un'antica produzione dell'area meridionale della Puglia. La Doc ricade nella zona jonico-salentina, coprendo le province di Brindisi e Lecce, un'area a secolare tradizione viticola. Il Salice Salentino Doc esiste nelle versioni Rosso, Rosato, Bianco, Pinot Bianco, Aleatico Dolce e Aleatico Liquoroso dolce.
Il Salice Salentino Bianco viene prodotto con uve Chardonnay (minimo al 70%) e presenta una gradazione alcolica minima di 11 gradi, anche per il tipo Frizzante. Il Pinot Bianco deve essere prodotto per l'85% dalle uve omonime, e per la restante parte con uve Chardonnay e Sauvignon e presenta una gradazione alcolica minima di 10,5 gradi. Il Rosso e il Rosato, in tutte le versioni, vengono ottenuti da Negroamaro, Malvasia Nera di Lecce e Malvasia Nera di Brindisi (2 anni in botti di legno per l'invecchiato). La gradazione alcolica è di 11,5 gradi. L'Aleatico infine deve essere prodotto con almeno l'85% di uve Aleatico e deve avere una gradazione minima di 14 gradi .
Il Salice Salentino Bianco, presenta un colore giallo paglierino chiaro, odore delicato e sentore di fruttato; il gusto è secco e fragrante; Il Rosso e il Rosato, in tutte le versioni, sono caratterizzati rispettivamente da un colore rosso rubino che tende al mattone con l'invecchiamento (2 anni in botti di legno), e rosato tendente al rubino; ferme restando le caratteristiche specifiche dei due vini indicate nel disciplinare di produzione, il profumo è vinoso, gradevole; il gusto è asciutto, di corpo, sapido, armonico. All'esame visivo le due versioni Salice Salentino Aleatico si presentano di colore rosso granata piuttosto intenso con riflessi violacei, e, ferme restando le caratteristiche specifiche dei due vini indicate nel disciplinare di produzione, il profumo è intenso e piuttosto persistente, fruttato ed etereo e il gusto è decisamente dolce, molto caldo, quasi alcolico, più che morbido, poco fresco, poco tannico e robusto di corpo. Il Pinot Bianco, infine, presenta colore giallo paglierino tenue, odore caratteristico, gradevolmente fruttato e sapore asciutto, vellutato, caratteristico.
Si tratta di un vino da pasto che nella tipologia Bianco viene servito con primi piatti di pasta e riso, verdure e pesce in calici ampi che si restringono verso l'alto a una temperatura di servizio di 10-12°C. Il Rosso si accompagna bene con preparazioni molto -strutturate e carni rosse. Va degustato in calici allungati ad una temperatura di 18°C. Il Rosato invece può essere abbinato a salumi piccanti, primi piatti con sughi leggeri, carni di maiale e agnello al forno o in umido, spezzatini di vitello con verdure, frittate campagnole, formaggi ovini freschi e si degusta in calici ampi e aperti a una temperatura di 12-14°C. Le versioni Dolci e Pinot Bianco si abbinano a dessert o a dolci tipici del periodo natalizio serviti in calici piccoli.
vini&co.
pentro di Isernia
Nel nome della Doc Pentro c'è il riferimento al popolo che costituiva il ramo più importante dei Sanniti, i Pentri, il 'popolo delle montagne' che avrebbe vissuto nell'area in cui si produce questo vino. Le prime testimonianze riguardanti la vitivinicoltura in Molise risalgono a documenti del 1800, in cui si parla della vendita di vino da parte del Molise all'Abruzzo e dei tipi di coltura adottati. La vite ha trovato, comunque, nella regione, un ambiente e un clima favorevole, sviluppando, così, un settore produttivo di un certo interesse. Tuttavia, la scelta operata in passato di produrre più per la quantità che per la qualità ha comportato il ricorso a forme di allevamento che hanno limitato la qualificazione della produzione vinicola. Attualmente, l'atteggiamento colturale sta cambiando verso la scelta di terreni e sistemi di allevamento adeguati a un prodotto di qualità, anche se la viticoltura è frammentata in migliaia di piccole proprietà e ciò rende complicati sia lo svecchiamento degli impianti, sia le operazioni di commercializzazione e vendita dei prodotti. Il Pentro è un vino da pasto prodotto nelle tipologie Bianco, Rosso e Rosato.
Il Pentro Bianco è prodotto con uve Trebbiano toscano (60-70%) e Bombino bianco (30-40%); nelle tipologie Rosso e Rosato è prodotto con uve Montepulciano (45-55%), Sangiovese (45-55%) ed eventualmente con piccole aggiunte di uve di altri vitigni a bacca nera (massimo 10%).
Il Pentro Bianco ha un colore paglierino tenue con riflessi verdognoli, un odore delicato, caratteristico, più o meno profumato, un sapore asciutto, intenso, piuttosto fresco e armonico e una gradazione minima di 10,5 °C; il Pentro Rosso ha un colore rosso rubino più o meno intenso, un odore gradevole, caratteristico, un sapore asciutto, armonico, vellutato e leggermente tannico e una gradazione minima di 11 °C; il Pentro Rosato ha un colore rosa più o meno intenso, un odore delicato, gradevole, caratteristico, un sapore asciutto, armonico, lievemente fruttato e una gradazione minima di 11 °C.
Il Pentro Bianco si gusta in calici svasati a 8-10° C abbinato a latticini e a primi piatti leggeri; il Pentro Rosso, da bere in calici bordolesi a 16-18° C, è particolarmente indicato per accompagnare pecorino, soppressata, piatti di polenta al ragù o paste al ragù; il Pentro Rosato, da versare in calici ampi e aperti a 12-14° C, si sposa con i fagioli, la soppressata, il coniglio alla cacciatora, piatti di cacio e uova.
Nel nome della Doc Pentro c'è il riferimento al popolo che costituiva il ramo più importante dei Sanniti, i Pentri, il 'popolo delle montagne' che avrebbe vissuto nell'area in cui si produce questo vino. Le prime testimonianze riguardanti la vitivinicoltura in Molise risalgono a documenti del 1800, in cui si parla della vendita di vino da parte del Molise all'Abruzzo e dei tipi di coltura adottati. La vite ha trovato, comunque, nella regione, un ambiente e un clima favorevole, sviluppando, così, un settore produttivo di un certo interesse. Tuttavia, la scelta operata in passato di produrre più per la quantità che per la qualità ha comportato il ricorso a forme di allevamento che hanno limitato la qualificazione della produzione vinicola. Attualmente, l'atteggiamento colturale sta cambiando verso la scelta di terreni e sistemi di allevamento adeguati a un prodotto di qualità, anche se la viticoltura è frammentata in migliaia di piccole proprietà e ciò rende complicati sia lo svecchiamento degli impianti, sia le operazioni di commercializzazione e vendita dei prodotti. Il Pentro è un vino da pasto prodotto nelle tipologie Bianco, Rosso e Rosato.
Il Pentro Bianco è prodotto con uve Trebbiano toscano (60-70%) e Bombino bianco (30-40%); nelle tipologie Rosso e Rosato è prodotto con uve Montepulciano (45-55%), Sangiovese (45-55%) ed eventualmente con piccole aggiunte di uve di altri vitigni a bacca nera (massimo 10%).
Il Pentro Bianco ha un colore paglierino tenue con riflessi verdognoli, un odore delicato, caratteristico, più o meno profumato, un sapore asciutto, intenso, piuttosto fresco e armonico e una gradazione minima di 10,5 °C; il Pentro Rosso ha un colore rosso rubino più o meno intenso, un odore gradevole, caratteristico, un sapore asciutto, armonico, vellutato e leggermente tannico e una gradazione minima di 11 °C; il Pentro Rosato ha un colore rosa più o meno intenso, un odore delicato, gradevole, caratteristico, un sapore asciutto, armonico, lievemente fruttato e una gradazione minima di 11 °C.
Il Pentro Bianco si gusta in calici svasati a 8-10° C abbinato a latticini e a primi piatti leggeri; il Pentro Rosso, da bere in calici bordolesi a 16-18° C, è particolarmente indicato per accompagnare pecorino, soppressata, piatti di polenta al ragù o paste al ragù; il Pentro Rosato, da versare in calici ampi e aperti a 12-14° C, si sposa con i fagioli, la soppressata, il coniglio alla cacciatora, piatti di cacio e uova.
vini&co.
il biferno
Il Biferno, prodotto in provincia di Campobasso, è uno tra i più prestigiosi vini del Molise. Il suo nome deriva da quello del principale fiume della regione, l'antico Tifernus, oggi Biferno appunto, così chiamato perché scaturisce da 'due bocche' nel territorio di Boiano. È nelle campagne intorno a Campobasso che vengono coltivati i vigneti che danno origine al Biferno, nelle sue tre versioni Bianco, Rosso e Rosato. E, se il Bianco si ottiene in prevalenza da uve di Trebbiano toscano derivanti da viti allevate a un'altezza che non può essere superiore ai 600 metri sul livello del mare, il Rosso e il Rosato sono prodotti principalmente con uve Montepulciano e devono essere frutto di viti coltivate a non più di 500 metri di altezza sul livello del mare.
Il Biferno Rosso e Rosato è prodotto con uve Montepulciano per almeno il 60-70%, Trebbiano toscano per il 15-20%, Aglianico per il 15-20% ed eventualmente con piccole aggiunte di uve di altri vitigni a bacca bianca o nera non aromatici per un massimo del 5%. Il Biferno Bianco è prodotto con uve Trebbiano toscano per almeno il 65-70%, a cui si aggiungono Bombino bianco (25-30%) e Malvasia bianca (5-10%).
Il Biferno Rosso ha un colore rosso rubino più o meno intenso con riflessi granati se invecchiato, un odore gradevole, caratteristico, con profumo etereo se invecchiato, un sapore asciutto, armonico, vellutato, giustamente tannico e una gradazione minima di 11,5°C; il Biferno Rosato ha un colore rosa più o meno intenso, un odore fruttato delicato, un sapore asciutto, fresco, armonico e una gradazione minima di 11,5°C; il Biferno Bianco ha un colore paglierino con riflessi verdognoli, un odore gradevole, delicato, leggermente aromatico, un sapore asciutto, armonico, fresco e una gradazione minima di 10,5°C.
Il Biferno Bianco si gusta in calici svasati a 8-10°C abbinato a fior di latte, Caciocavallo silano, trote al forno; il Biferno Rosso, da bere in calici bordolesi a 16-18°C, è particolarmente indicato per accompagnare carni bianche al forno, carni rosse alla griglia, pecorino stagionato, soppressata, piatti di polenta al ragù o paste elaborate; il Biferno Rosato, da versare in calici ampi e aperti, si sposa con i fagioli, la soppressata e il coniglio alla cacciatora.
Il Biferno, prodotto in provincia di Campobasso, è uno tra i più prestigiosi vini del Molise. Il suo nome deriva da quello del principale fiume della regione, l'antico Tifernus, oggi Biferno appunto, così chiamato perché scaturisce da 'due bocche' nel territorio di Boiano. È nelle campagne intorno a Campobasso che vengono coltivati i vigneti che danno origine al Biferno, nelle sue tre versioni Bianco, Rosso e Rosato. E, se il Bianco si ottiene in prevalenza da uve di Trebbiano toscano derivanti da viti allevate a un'altezza che non può essere superiore ai 600 metri sul livello del mare, il Rosso e il Rosato sono prodotti principalmente con uve Montepulciano e devono essere frutto di viti coltivate a non più di 500 metri di altezza sul livello del mare.
Il Biferno Rosso e Rosato è prodotto con uve Montepulciano per almeno il 60-70%, Trebbiano toscano per il 15-20%, Aglianico per il 15-20% ed eventualmente con piccole aggiunte di uve di altri vitigni a bacca bianca o nera non aromatici per un massimo del 5%. Il Biferno Bianco è prodotto con uve Trebbiano toscano per almeno il 65-70%, a cui si aggiungono Bombino bianco (25-30%) e Malvasia bianca (5-10%).
Il Biferno Rosso ha un colore rosso rubino più o meno intenso con riflessi granati se invecchiato, un odore gradevole, caratteristico, con profumo etereo se invecchiato, un sapore asciutto, armonico, vellutato, giustamente tannico e una gradazione minima di 11,5°C; il Biferno Rosato ha un colore rosa più o meno intenso, un odore fruttato delicato, un sapore asciutto, fresco, armonico e una gradazione minima di 11,5°C; il Biferno Bianco ha un colore paglierino con riflessi verdognoli, un odore gradevole, delicato, leggermente aromatico, un sapore asciutto, armonico, fresco e una gradazione minima di 10,5°C.
Il Biferno Bianco si gusta in calici svasati a 8-10°C abbinato a fior di latte, Caciocavallo silano, trote al forno; il Biferno Rosso, da bere in calici bordolesi a 16-18°C, è particolarmente indicato per accompagnare carni bianche al forno, carni rosse alla griglia, pecorino stagionato, soppressata, piatti di polenta al ragù o paste elaborate; il Biferno Rosato, da versare in calici ampi e aperti, si sposa con i fagioli, la soppressata e il coniglio alla cacciatora.
salumi&co.
la ventricina
La ventricina si identifica nella regione Abruzzo,delimitata storicamente nella zona pedemontana e collinare,in prossimità del fiume Trigno e del fiume Sinello detta zona del Vastese.
La ventricina viene ancora prodotta in maniera artigianale all'interno di queste zone,ma il suo nome è a rischio, in quanto il suo nome rischia di essere copiato da altre aziende extra-regionali,causando un danno all'immagine stessa del prodotto,nonché sradicando dalla sua terra nativa un prodotto unico nel suo genere e di notevole tradizione storica propria del suo territorio.
Purtroppo il rischio di contaminazione industriale è molto importante poiché,vendendo il prodotto,di minor qualità,ad un costo minore del 40-50% circa questo potrebbe solo che creare numerosi danni a discapito dei produttori-artigiani locali.La lavorazione di questo prodotto deriva da una tradizione antica chiamata "maialatura",essa consiste in una tecnica che prevede sia l'uccisione del maiale,sia della trasformazione delle sue carni in salami.
Questa tradizione si estende dalla zona collinare e pedemontana fino ad arrivare schiavi d'Abruzzo,attraversando tutti i comuni delle comunità montane,quindi assumendo uno spiccato carattere locale nel corso de secoli.Accanto al sale,come conservante delle carni,troviamo anche il "peperone trito" dolce e piccante come spezia e conservante.Inoltre la carne viene tagliata esclusivamente al coltello.Ancora oggi la "maialatura" è ancora presente soprattutto nelle famiglie contadine,che acquistano i maiali appena svezzati e poi vengono allevati da essi stessi fino al raggiungimento del peso ideale che oscilla da 180kg fino ad altro 200kg.L'alimentazione prevalente e' a base di crusca, farinacci, frutta, avanzi domestici in genere. L'alimentazione e' uno degli elementi fondamentali per le caratteristiche qualitative delle carni e quindi dei salumi.
I tagli usati per la preparazione della ventricina sono:spalla, lonza, lombo, coscia e pancetta (privata dei grassi molli bassofondenti). E' ammesso l'impiego di rifilature e di triti di prima qualita'(70% tagli magri e 30% pancetta e grasso prosciutto).Speziatura a base di peperone trito dolce e piccante, semi di finocchi (e pepe).
La ventricina del Vastese presenta all’aspetto un colore melograno vivo appena giunta a maturazione. Man mano che prosegue la stagionatura il colore tende al rosso arancio tendente leggermente ad imbrunire.
All’olfatto, il principe dei sensi, si manifesta una fragranza di peperone ed un velato sentore di fiore finocchio. L’esaltazione poi avviene al gusto. Il magro, opportunamente amalgamato con grasso,presenta una leggerissima acidità dovuta al peperone trito, però subito smorzata dalla dolcezza del grasso che nell’insieme, appena deglutito lascia un sentore di formaggio fresco.
Di ventricina possiamo mangiarne a sazietà se accompagnato, come contorno, con il pomodoro quasi maturo. I vini d’accompagnamento: bianchi leggermente frizzanti d’estate ed i vini rossi, meglio se Montepulciano d’Abruzzo, in autunno inverno…
La ventricina si identifica nella regione Abruzzo,delimitata storicamente nella zona pedemontana e collinare,in prossimità del fiume Trigno e del fiume Sinello detta zona del Vastese.
La ventricina viene ancora prodotta in maniera artigianale all'interno di queste zone,ma il suo nome è a rischio, in quanto il suo nome rischia di essere copiato da altre aziende extra-regionali,causando un danno all'immagine stessa del prodotto,nonché sradicando dalla sua terra nativa un prodotto unico nel suo genere e di notevole tradizione storica propria del suo territorio.
Purtroppo il rischio di contaminazione industriale è molto importante poiché,vendendo il prodotto,di minor qualità,ad un costo minore del 40-50% circa questo potrebbe solo che creare numerosi danni a discapito dei produttori-artigiani locali.La lavorazione di questo prodotto deriva da una tradizione antica chiamata "maialatura",essa consiste in una tecnica che prevede sia l'uccisione del maiale,sia della trasformazione delle sue carni in salami.
Questa tradizione si estende dalla zona collinare e pedemontana fino ad arrivare schiavi d'Abruzzo,attraversando tutti i comuni delle comunità montane,quindi assumendo uno spiccato carattere locale nel corso de secoli.Accanto al sale,come conservante delle carni,troviamo anche il "peperone trito" dolce e piccante come spezia e conservante.Inoltre la carne viene tagliata esclusivamente al coltello.Ancora oggi la "maialatura" è ancora presente soprattutto nelle famiglie contadine,che acquistano i maiali appena svezzati e poi vengono allevati da essi stessi fino al raggiungimento del peso ideale che oscilla da 180kg fino ad altro 200kg.L'alimentazione prevalente e' a base di crusca, farinacci, frutta, avanzi domestici in genere. L'alimentazione e' uno degli elementi fondamentali per le caratteristiche qualitative delle carni e quindi dei salumi.
I tagli usati per la preparazione della ventricina sono:spalla, lonza, lombo, coscia e pancetta (privata dei grassi molli bassofondenti). E' ammesso l'impiego di rifilature e di triti di prima qualita'(70% tagli magri e 30% pancetta e grasso prosciutto).Speziatura a base di peperone trito dolce e piccante, semi di finocchi (e pepe).
La ventricina del Vastese presenta all’aspetto un colore melograno vivo appena giunta a maturazione. Man mano che prosegue la stagionatura il colore tende al rosso arancio tendente leggermente ad imbrunire.
All’olfatto, il principe dei sensi, si manifesta una fragranza di peperone ed un velato sentore di fiore finocchio. L’esaltazione poi avviene al gusto. Il magro, opportunamente amalgamato con grasso,presenta una leggerissima acidità dovuta al peperone trito, però subito smorzata dalla dolcezza del grasso che nell’insieme, appena deglutito lascia un sentore di formaggio fresco.
Di ventricina possiamo mangiarne a sazietà se accompagnato, come contorno, con il pomodoro quasi maturo. I vini d’accompagnamento: bianchi leggermente frizzanti d’estate ed i vini rossi, meglio se Montepulciano d’Abruzzo, in autunno inverno…
news&co.
concorso fotografico organizzato da slowfood e La Stampa
Vi presentiamo una selezione delle foto che hanno partecipato al concorso organizzato da Slow Food e La Stampa in occasione di Cheese 2008. Le categorie del concorso erano: Paesaggi, Perplessità, Uomini e Personaggi:
http://multimedia.slowfood.it/index.php?method=gallery&action=zoom&id=4116
Vi presentiamo una selezione delle foto che hanno partecipato al concorso organizzato da Slow Food e La Stampa in occasione di Cheese 2008. Le categorie del concorso erano: Paesaggi, Perplessità, Uomini e Personaggi:
http://multimedia.slowfood.it/index.php?method=gallery&action=zoom&id=4116
salumi&co.
prosciutto nero dei nebrodi
Spesso i boschi dei Nebrodi (50 mila ettari di faggi e querce in gran parte all’interno di un parco naturale) sono cintati da reti altissime, e basta accostarle quando un piccolo branco di suini grufola nelle vicinanze, per comprenderne la ragione. Infatti questi animali – molto più simili a cinghiali selvaggi sia nelle fattezze sia nelle abitudini – non hanno nulla di mansueto e di domestico.
Di taglia piccola e mantello scuro (caratteristica delle razze suine autoctone italiane), i suini Neri dei Nebrodi sono allevati allo stato semibrado e brado in ampie zone adibite a pascolo: solo in concomitanza con i parti si ricorre all’integrazione alimentare.
Frugale e resistente, questa razza negli ultimi anni ha visto ridursi considerevolmente il numero dei capi (attualmente si può presumibilmente stimare la presenza di circa 2000 animali). Gli allevatori hanno aziende molto piccole e, nella maggioranza dei casi, sono anche trasformatori. I loro prodotti, tuttavia, raramente raggiungono il mercato: destinati in massima parte al consumo familiare oppure oggetto di piccoli scambi locali.
L’estinzione di questa razza suina (una delle poche sopravvissute in Italia) costituirebbe una grave perdita per il patrimonio genetico, ma anche e soprattutto per l’economia locale e per il piacere gastronomico: il Nero dei Nebrodi, infatti, offre carni di altissima qualità. Il Presidio sta lavorando per individuare gli allevatori, riunirli, dotarli delle strutture necessarie per trasformare la carne e promuovere la ricca e variegata gamma di prodotti norcini di questa zona: dai salami ai prosciutti, dai capocolli alla pancetta.
Tutte le specialità norcine della Sicilia sono concentrate in questa zona nord-orientale dell’isola: il salame di Sant’Angelo in Brolo, il prosciutto e la salsiccia dei Nebrodi, i salami, i capocolli e le pancette. Un tempo erano tutti prodotti con il suino Nero, oggi la situazione è più confusa: molti norcini, infatti, sono costretti a rifornirsi di suini ibridi dagli allevamenti industriali. Ma tutte le degustazioni comparate provano che i prodotti realizzati a partire dalla carne di suino Nero allevato brado esprimono un’intensità aromatica nettamente superiore e possiedono una maggiore attitudine alle lunghe stagionature. Naturalmente la carne di suino Nero – nei suoi vari tagli – può anche essere consumata fresca.La zona di produzione è intorno a tutt i comuni dell'area dei nebrodi(provincia di messina,enna e catania)
Spesso i boschi dei Nebrodi (50 mila ettari di faggi e querce in gran parte all’interno di un parco naturale) sono cintati da reti altissime, e basta accostarle quando un piccolo branco di suini grufola nelle vicinanze, per comprenderne la ragione. Infatti questi animali – molto più simili a cinghiali selvaggi sia nelle fattezze sia nelle abitudini – non hanno nulla di mansueto e di domestico.
Di taglia piccola e mantello scuro (caratteristica delle razze suine autoctone italiane), i suini Neri dei Nebrodi sono allevati allo stato semibrado e brado in ampie zone adibite a pascolo: solo in concomitanza con i parti si ricorre all’integrazione alimentare.
Frugale e resistente, questa razza negli ultimi anni ha visto ridursi considerevolmente il numero dei capi (attualmente si può presumibilmente stimare la presenza di circa 2000 animali). Gli allevatori hanno aziende molto piccole e, nella maggioranza dei casi, sono anche trasformatori. I loro prodotti, tuttavia, raramente raggiungono il mercato: destinati in massima parte al consumo familiare oppure oggetto di piccoli scambi locali.
L’estinzione di questa razza suina (una delle poche sopravvissute in Italia) costituirebbe una grave perdita per il patrimonio genetico, ma anche e soprattutto per l’economia locale e per il piacere gastronomico: il Nero dei Nebrodi, infatti, offre carni di altissima qualità. Il Presidio sta lavorando per individuare gli allevatori, riunirli, dotarli delle strutture necessarie per trasformare la carne e promuovere la ricca e variegata gamma di prodotti norcini di questa zona: dai salami ai prosciutti, dai capocolli alla pancetta.
Tutte le specialità norcine della Sicilia sono concentrate in questa zona nord-orientale dell’isola: il salame di Sant’Angelo in Brolo, il prosciutto e la salsiccia dei Nebrodi, i salami, i capocolli e le pancette. Un tempo erano tutti prodotti con il suino Nero, oggi la situazione è più confusa: molti norcini, infatti, sono costretti a rifornirsi di suini ibridi dagli allevamenti industriali. Ma tutte le degustazioni comparate provano che i prodotti realizzati a partire dalla carne di suino Nero allevato brado esprimono un’intensità aromatica nettamente superiore e possiedono una maggiore attitudine alle lunghe stagionature. Naturalmente la carne di suino Nero – nei suoi vari tagli – può anche essere consumata fresca.La zona di produzione è intorno a tutt i comuni dell'area dei nebrodi(provincia di messina,enna e catania)
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